Il saggio di Andrea Matucci Pasolini anni '50: passione
o ideologia (pubblicato nel n. 2, pagina di Critica)
ha suscitato obiezioni da parte di Neil Novello, alle quali
lo stesso Matucci ha replicato. Successivamente è
intervenuto anche Matteo Veronesi, e fin qui la discussione
è raccolta nel corrente n. 4, pagina del Libellus.
Sembra interessante, a questo punto, pubblicare un breve
insieme di documenti, peraltro noti, come per ascoltare
direttamente, in un certo senso, l'autore di cui si parla.
Ovviamente si sono cercati brani in cui si potesse reperire
qualche elemento di verifica delle tesi a confronto. Ecco
dunque alcuni passi da una recensione, un articolo giornalistico
e una intervista all'intellettuale, fra i testi poi inclusi
negli Scritti Corsari (l'edizione a cui ci si attiene
è nella collezione "Opere di Pier Paolo Pasolini",
Scritti Corsari, copyrigth Aldo Garzanti 1975, I
edizione, Milano 1977).
Da tre brani giornalistici fra gli Scritti Corsari
Da Sandro Penna: "Un po' di febbre"
Che paese meraviglioso era l'Italia durante il periodo
del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta
da bambini, e per venti trent'anni non è più
cambiata: non dico i suoi valori - che sono una parola troppo
alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire
- ma le apparenze parevano dotate del dono dell'eternità:
si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella
rivoluzione, ché tanto quella meravigliosa cosa che
era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva
sentire eroi del mutamento e della novità, perché
a dare coraggio e forza era la certezza che le città
e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero
mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le
loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente
rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente
immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo
di un uomo o di un ragazzo. [
] La gente indossava
vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero
rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi
erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti
a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata
virilità nascente, benché così piena
di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle
saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola
che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro
silenzio c'era una intensità e una umile volontà
di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro
padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale
purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro
sensualità, che finivano col costituire un mondo
dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero
che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla
vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte,
ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era
la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi
a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel
mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano,
quei ragazzi un po' rozzi, ma retti e gentili, se non il
momento di amare una donna?
[
]
Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso
di colpa - e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno
rotto l'isolamento cui li condannava la gelosia dei padri,
irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di
cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio
o all'adulazione - è nato uno scandaloso rimpianto;
quello per l'Italia fascista o distrutta dalla guerra. I
delinquenti al potere - sia a Roma che nei municipi della
grande provincia campestre - non facevano parte della vita:
il passato che determinava la vita (e che non era certo
il loro idiota passato archeologico) in essi non determinava
che la loro fatale figura di criminali destinati a detenere
il potere nei paesi antichi e poveri.
Nel libro Un po' di febbre di Sandro Penna, si rievoca
questa Italia. Il trauma è grande. Non si può
non essere sconvolti. Leggendo queste pagine prende un'emozione
che fa tremare. E fa venire anche una certa voglia di andarsene
da questo mondo, con quei ricordi. Infatti non è
un cambiamento di epoca, che noi viviamo, ma una tragedia.
Quel che ci sconvolge non è la difficoltà
di adattarsi a un nuovo tempo, ma un immedicabile dolore
simile a quello che dovevano provare le madri vedendo partire
i loro figli emigranti e sapendo che non li avrebbero visti
mai più. La realtà lancia su noi uno sguardo
di vittoria, intollerabile: il verdetto è che ciò
che si è amato ci è tolto per sempre. Nel
libro di Penna quel mondo appare ancora in tutta la sua
stabilità ed eternità, quando era «il»
mondo, e nulla avrebbe mai fatto sospettare che sarebbe
cambiato. Penna lo viveva avidamente e totalmente. Aveva
capito che era stupendo.
[
]
Tanto che è difficile parlare di Un po' di febbre
come di un libro: esso è un brano di tempo ritrovato.
È qualcosa di materiale. Un delicatissimo materiale
fatto di luoghi cittadini con asfalto e erba, intonaci di
case povere, interni coi modesti mobili, corpi di ragazzi
coi loro casti vestiti, occhi ardenti di purezza e innocente
complicità. E com'è sublime il completo, totale
disinteresse di Penna per ciò che accadeva al di
fuori di questa esistenza tra il popolo. Niente è
stato più antifascista di questa esaltazione di Penna
nell'Italia sotto il fascismo, vista come un luogo di inenarrabile
bellezza e bontà. Penna ha ignorato la stupidità
e la ferocia del fascismo: non l'ha considerata esistente.
Peggiore insulto non poteva - innocentemente - inventare
contro di esso. Ché Penna è crudele: non ha
pietà per ciò che minimamente non è
investito dalla grazia della realtà, figurarsi per
ciò che n'è fuori o contro. La sua condanna
- non pronunciata - è assoluta, implacabile, senza
appello.
Nella sua ristrettezza di motivi e di problemi, nel minimo
spazio che si consente, questo libro in realtà è
colmo di un sentimento immenso, straripante della vita.
La gioia vi è così grande da essere dolorosa.
Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come
presentimento di perdere quella gioia. [
]
(Su "Tempo" 10 giugno 1973)
Da 8 luglio 1974. Limiti della storia e immensità
del mondo contadino
Caro Calvino,
Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un'«età
dell'oro», tu dici che rimpiango l'«Italietta»:
tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto
un valore negativo e quindi un facile bersaglio.
Ciò che io rimpiango (se si può parlare di
rimpianto) l'ho detto chiaramente, sia pure in versi ("Paese
Sera", 5 gennaio 1974). Che degli altri abbiano fatto
finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio
che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per
farlo). Io rimpiangere l'«Italietta»? Ma allora
tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci
o di Calderón, non hai letto una sola riga
dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei
miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò
che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa
rimpiangere l'Italietta. A meno che tu non mi consideri
radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia
miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo
non mi par degna di te.
L'«Italietta» è piccolo-borghese, fascista,
democristiana; è provinciale e ai margini della storia;
la sua cultura è un umanesimo scolastico formale
e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che
mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata
un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato,
tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane
può non saperlo. Ma tu no.
[
]
Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale.
Lo so perché, in parte, è anche la mia vita.
Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di
pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi.
Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come
il dottor Hyde, ho un'altra vita. Nel vivere questa vita,
devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe.
Sfondare le pareti dell'Italietta, e sospingermi quindi
in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario
e il mondo operaio. L'ordine in cui elenco questi mondi
riguarda l'importanza della mia esperienza personale, non
la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo
era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata.
Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali,
che esso faceva parte del territorio dell'Italietta. Al
di fuori di questa pura e semplice formalità, tale
mondo non coincideva affatto con l'Italia. L'universo contadino
(cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e,
appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie
- ché erano vere e proprie minoranze, come in Russia
nel '17) è un universo transnazionale: che addirittura
non riconosce le nazioni. Esso è l'avanzo di una
civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà
precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante
(nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi
e i propri fini politici (per un lucano - penso a De Martino
- la nazione a lui estranea, è stato prima il Regno
Borbonico, poi l'Italia piemontese, poi l'Italia fascista,
poi l'Italia attuale: senza soluzione di continuità).
È questo illimitato mondo contadino prenazionale
e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa,
che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo
possibile, nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive
ancora, benché il Terzo Mondo stia anch'esso entrando
nell'orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un'età
dell'oro, come non erano coinvolti, se non formalmente
con l'Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato
l'età del pane. Erano cioè consumatori
di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che
rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria
vita.
[
]
Ho detto, e lo ripeto, che l'acculturazione del Centro consumistico,
ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora
su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle
culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane
sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto
agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto)
è unico. La conformazione a tale modello si ha prima
di tutto nel vissuto, nell'esistenziale: e quindi nel corpo
e nel comportamento. È qui che si vivono i valori,
non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà
dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo
totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del
linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua
a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell'espressività.
I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo
e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più
perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là
dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni
loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle
borgate romane sarebbe più in grado, per esempio,
di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni
fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare
l'annesso glossario come un buon borghese del Nord!
Naturalmente questa mia "visione" della nuova
realtà culturale italiana è radicale: riguarda
il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni,
le sue resistenze, le sue sopravvivenze.
Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui,
dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia
inconscia e reale (l'edonismo consumistico) un giovane
fascista non può più essere distinto da tutti
gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo
che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta
di giovani appartenenti alla nostra stessa élite,
e condannati a essere ancora più infelici di noi:
e quindi probabilmente anche migliori.
(Su "Paese Sera" col titolo Lettera aperta
a Italo Calvino: P.: quello che rimpiango)
Da 11 luglio 1974. Ampliamento del "bozzetto"
sulla rivoluzione antropologica in Italia
Il linguaggio della televisione è per sua natura
il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento.
Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni,
nel linguaggio fisico-mimico e nel linguaggio del comportamento
nella realtà. Gli eroi della propaganda televisiva
- giovani su motociclette, ragazze accanto a dentifrici
- proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà.
Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda
televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova
ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente
efficace.
[
]
Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza
dell'esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del
linguaggio verbale (gli studenti parlano come libri stampati,
i ragazzi del popolo hanno perduto ogni inventività
gergale), è la tristezza: l'allegria è sempre
esagerata, ostentata, aggressiva, violenta. La tristezza
fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Essa
dipende da una frustrazione sociale. Ora che il modello
sociale da realizzare non è più quello della
propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto
in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente.
Faccio un esempio, molto umile. Una volta il fornarino,
o cascherino - come lo chiamano qui a Roma - era sempre,
eternamente allegro: un'allegria vera, che gli sprizzava
dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando
e lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile.
Era vestito molto più poveramente di adesso: i calzoni
erano rattoppati, addirittura spesse volte la camicetta
uno straccio. Però tutto ciò faceva parte
di un modello che nella sua borgata aveva un valore, un
senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della ricchezza egli
aveva da opporre un proprio mondo altrettanto valido. Giungeva
nella casa del ricco con un riso naturaliter anarchico,
che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso.
Ma era appunto il rispetto di una persona profondamente
estranea. E insomma, ciò che conta, questa persona,
questo ragazzo, era allegro.
Non è la felicità che conta? Non è
per la felicità che si fa la rivoluzione? La condizione
contadina e sottoproletaria sapeva esprimere, nelle persone
che la vivevano, una certa felicità "reale".
Oggi, questa felicità - con lo Sviluppo - è
andata perduta. [
]
(Su "Il Mondo", intervista rilasciata a Guido
Vergani dal titolo Cari nemici, avete torto)
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Documento di richiamo, inserito il 15/05/2016
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