di Andrea Matucci
(Pier Paolo Pasolini è stato ricordato nel 2015,
a quarant'anni dalla morte, in molti contesti culturali
e politico-culturali. Qui, un contributo critico di Andrea
Matucci propone delle acute osservazioni sul rapporto fra
poesia e prosa nella poetica pasoliniana. Sebbene l'occasione
di stesura del saggio sia stata presa dalla ricorrenza,
il ritardo della sua pubblicazione all'inizio di quest'anno
è un gesto simbolico della rivista, quale distacco
dalla retorica celebrativa di tante manifestazioni sul polivalente
artista, che sarebbe stato meglio assumessero anche toni
di rammarico per la diffusa incomprensione che l'intellettuale
e l'uomo subirono in vita.)
Pasolini anni '50: passione o ideologia
Con Ragazzi di vita, pubblicato nel 1955, Pasolini
si unisce ad altri scrittori del Novecento che avevano assunto
al ruolo di protagoniste le classi più emarginate
e abbandonate dal progresso: gli ultimi, come suol dirsi.
Ma sono due le differenze con i vari Alvaro, Silone, Levi,
Scotellaro, e tutte e due importantissime. La prima è
che - finalmente - Pasolini cerca i suoi emarginati nella
metropoli e non nelle campagne, e addirittura nella capitale,
e non nella abusata questione meridionale; la seconda è
che riscopre nell'occasione un narratore di tipo verghiano,
e lo mette al posto delle abituali prime persone autoriali,
o comunque di ottiche narrative in qualche modo esterne
e consideranti. La voce che racconta i Ragazzi di vita
è una anonima voce del coro, che parla con lo stesso
linguaggio dei personaggi e che, come quella di Verga, non
dà, né avrebbe senso che desse, pensieri e
tanto meno giudizi dei personaggi su se stessi e sul mondo
in cui vivono, salvo un diffuso e quanto mai appagante senso
di appartenenza a quello stesso mondo. Di fatto, l'unica
prerogativa che questa voce narrante si attribuisce è
la capacità - e direi anche la voglia - di descriverlo,
quel mondo, nelle sue luci, nei suoi rumori, nella sua quotidiana
vita:
Intanto veniva buio, le migliaia di file e di diagonali
di finestre e balconi dei grattacieli s'erano illuminate,
delle radio andavano a tutta callara e da dentro le cucine
si sentiva rumore di piatti e voci di donne che strillavano,
litigavano o cantavano.(1)
Inserito nella normalità del suo ambiente naturale,
come un animale in un bosco, verrebbe da dire, nessun personaggio
del romanzo si sognerebbe mai di soffermarsi su descrizioni
d'ambiente, né tanto meno avrebbe occhi per la bellezza
naturale che circonda ancora quel mondo di povere borgate,
come quei tramonti quasi visti "dietro un'invetriata,
e pareva che laggiù, dall'altra parte del cielo,
ci fosse un'altra Roma, che andasse silenziosamente a fuoco."(2)
Ma, a parte queste visioni dal tono talvolta addirittura
poetico, niente distingue la voce del narratore da quella
dei personaggi, né nella inflessione dialettale,
né, soprattutto, nello sguardo rivolto all'ambiente
sociale:
Lì davanti al gradino dov'erano seduti i due
compari, c'erano file di gente che andava pei fatti suoi,
chi tornando tutto zozzo dallo sgobbo, chi riuscendo di
casa già acchittato, per andarsene a spasso con
gli amici:(3)
Sembrano le file opposte dei dannati in una bolgia dantesca:
da un lato il lavoro come "sgobbo", che pare serva
solo a sporcarsi; dall'altro l'eleganza di certo un po'
sfrontata di chi comincia la sua serata di vita, e solo
questo è vita. Ci sono fabbriche come la Ferro Beton,
in quei quartieri, ma servono solo a procurarsi nottetempo
materiale ferroso da rivendere. Si vive di piccoli furti,
di ricettazione, di prostituzione, di gioco d'azzardo, e
se uno dei protagonisti, Riccetto, tenta per qualche tempo
di darsi la credibilità necessaria per avere normalmente
una ragazza, e si pone a spingere il carretto di un pescivendolo,
non può durare molto: il denaro è poco, e
troppa la fatica dello "sgobbo". E l'altra Roma,
la Roma operaia, la Roma città aperta e poi libera
che negli anni delle vicende narrate sta riparando le ferite
della guerra e preparando rinascite e speranze, semplicemente
in questo romanzo non c'è, né nella voce dei
personaggi né in quella del narratore.
Il risultato è il progressivo inserimento del lettore,
pagina dopo pagina, in un mondo senza tempo e senza speranze,
privo di attese e di coscienza sociale. Un mondo totalizzante
in cui si è sempre più immersi, senza alternative,
e che a quel lettore del '55 (l'anno di Metello!)
doveva apparire lontano, parallelo e separato dal suo, sporco,
e misero, e abbrutito dal degrado; però non grigio,
e né tristemente rassegnato né chiedente aiuto,
ma leggero, allegro, di un'eterna felice vitale allegria:
Era come una mano di colore data sul venticello, sui
muri gialletti della borgata, sui prati, sui carretti,
sugli autobus coi grappoli agli sportelli. Una mano di
colore ch'era tutta l'allegria e la miseria delle notti
d'estate del presente e del passato.(4)
Tutto è vitale in questo mondo, nel senso più
puro, e veramente, ricordando anche la successiva "Trilogia
della vita", più pasoliniano del termine: "negli
orti", come nella vigna di Renzo, "i legumi crescevano
soli belli grassi come nel paradiso terrestre". E tutto
in questo mondo si muove, ma senza un preciso obiettivo,
quasi istintivamente seguendo l'eterno condensarsi e dipanarsi
della materia: "nei centri delle borgate la gente s'ammassava,
correva, strillava, che pareva d'essere nei bassifondi di
Shangai."(5) Siamo entrati, con
questo richiamo al mito popolare di una Cina formicolante,
nell'ultima parte del libro, in un capitolo che non per
caso si chiama "Dentro Roma"; e in queste pagine,
al culmine di un processo di totale osmosi fra narratore,
personaggi, ambiente e lettore, quest'ultimo scopre che
non solo la Roma operaia e politicizzata - tanto meno la
Roma borghese - non entra nelle borgate per "civilizzarle",
come un sano progressismo (utopistico) avrebbe forse potuto
augurarsi e forse si attendeva, no, sono al contrario i
borgatari a invadere Roma, portando nel centro della città
la loro ipercinetica allegria senza tempo:
E tutta quella vita, non c'era solo nelle borgate di
periferia, ma pure dentro Roma, nel centro della città,
magari sotto il Cupolone: sì, proprio sotto il
Cupolone, che bastava mettere il naso fuori dal colonnato
di Piazza San Pietro, verso Porta Cavalleggeri, e èccheli
llì, a gridare, a prender d'aceto, a sfottere,
in bande e in ghenghe intorno ai cinemetti, alle pizzerie,
sparpagliati poco più in là, in via del
Gelsomino, in via della Cava, sugli spiazzi di terra battuta
delimitata dai mucchi di rifiuti dove i ragazzini di giorno
giocano a palla, in coppie tra le fratte coperte di pezzi
di giornale abbandonati tra via delle Fornaci e il Gianicolo
...(6)
E non sembra, infine, un'invasione solo antropica: quei
rifiuti poco più in là, quelle "fratte",
quei pezzi di giornale sembrano quasi trasformare l'intera
città in una immensa borgata, nel tangibile compiacimento
di un narratore che porta il suo mondo a sfidare anche gli
ambienti più borghesi: si può giocare al pallone
infatti perfino "tra le ruote delle millenove dei ganzi
che vanno con la zoccoletta di Cinecittà a cenare
all'Antica Pesa."(7) Non c'è
altro nella Roma dei Ragazzi di vita: solo loro stessi,
indifferenti a tutto il resto, "leggeri come le carte
sporche che il venticello trascina qua e là."(8)
È vero: non si deve confondere il narratore con
l'autore e le sue libere scelte di chiudersi o non chiudersi
in un'ottica; è vero: l'arte mal sopporta critiche
extra-artistiche, e il valore di un testo narrativo, la
sua importanza nella letteratura di un certo periodo prescinde
da suo seguire o non seguire l'onda del momento; e così
come accettiamo, anzi siamo felici che Menzogna e sortilegio
sia contemporaneo al Sentiero dei nidi di ragno,
così accettiamo, anzi siamo felici che Ragazzi
di vita sia contemporaneo a Metello. Ma, detto
questo, non possiamo non stupirci che un autore che in quegli
anni e poi sempre si è detto comunista - anche se
dal '49 in poi i suoi rapporti col PCI non sono stati certo
idilliaci - abbia proprio in quegli anni completamente espunto
da una delle sue prime prove narrative, forse la prima di
un certo impegno, ogni pulsione ideologica, ogni desiderio
di denuncia, ogni anelito a un egualitario progresso, e
perfino ogni tentazione di quel pietismo che il modello
verghiano indicava. La misera allegria dei suoi Ragazzi
non ha cause nel suo passato e soprattutto non ha futuro
né vuole averlo, non è assediata o contaminata
dal resto del mondo né vuole esserlo: la stessa trama
del libro non è un percorso, uno sviluppo, ma una
serie di capitoli staccati che seguono solo un sottile filo
cronologico, e la morte su cui si chiude è solo un
evento forse più eclatante di altri, ma come altri
prevedibile, la vita continua uguale e solo questo conta.
Proviamo allora a volgerci altrove.
Negli stessi anni in cui si confonde fra i suoi Ragazzi
di vita, Pasolini, su un altro tavolo, lavora anche
ad altri testi, da quel poligrafo che non ha mai cessato
di essere. Sono in specie i poemetti riuniti poi sotto il
titolo di uno di essi, Le ceneri di Gramsci, e pubblicati
poco dopo il romanzo, nel 1957. Non stupisce dunque ritrovare
subito in quei poemetti, dopo il grande volo iniziale dell'Appennino,
già nel secondo dal titolo Il canto popolare,
quel mondo appunto di un popolo senza tempo, "spanto
/ in borghi, in rioni, con gioventù / sempre nuove
- nuove al vecchio canto - / a ripetere ingenuo quello che
fu."(9) A loro infatti appartiene
il canto: a "chi è partecipe alla storia / solo
per orale, magica esperienza; / e vive puro, non oltre la
memoria / della generazione in cui presenza / della vita
è la sua vita perentoria."(10)
Nessuna coscienza di un percorso storico, nessun passato
e nessun futuro, solo la "presenza", generazione
dopo generazione, e solo in questa presenza è la
vita, assoluta, paga di se stessa, "perentoria":
il poeta trova subito l'aggettivo giusto per quella parola
che anche il romanziere aveva posto nell'altro titolo, ma
lì solo legandola a un concetto di giovinezza. E
poi il dispiegarsi, strofa dopo strofa, dei canti, in mille
lingue e dialetti ("e il popolo canta
")
finché il canto, quasi una summa di tutti
gli altri, è nelle ultime due strofe sulle labbra
e nel cuore di un "ragazzo", l'altra parola del
titolo del romanzo: canta a Rebibbia, e in lui quasi improvvisamente
- almeno per chi arrivasse alle Ceneri dalla lettura
dei Ragazzi di vita - alla "festiva / leggerezza
dei semplici" si unisce con rima interna una "certezza",
una "dura certezza":
Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare?
Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
in cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.(11)
C'è più sviluppo, più progresso ideologico
in un poemetto di dieci strofe - almeno apparentemente -
che nel contemporaneo romanzo: la "vita perentoria"
è per se stessa "luce", è "felicità",
ma nell'essere questo è anche "forza",
quella necessaria a colmare l' "ansia di giustizia"
in una "imminente riscossa". La "coscienza"
nascerà dal suo contrario, la "memoria"
non sarà imposta ma libera, e infine verrà
"la luce di chi è ciò che non sa":
raramente, forse mai si è riusciti a racchiudere
in un solo verso - un purissimo decasillabo, dopo tante
asprezze e dissonanze metriche - l'idea marxista, ma più
gramsciana, appunto, della faticosa ascesa delle masse popolari
a una nuova cultura e quindi alla coscienza di sé.
Cosa aspettarsi, ora, nei poemetti successivi? La sempre
più "perentoria" affermazione di un quadro
ideologico già qui chiarissimo? L'incrollabile fiducia
nella liberazione delle masse sottoproletarie guidate dal
Partito? Inni alla militanza e al proselitismo? Niente di
tutto questo, ovviamente, perché quel percorso che
sembrava delinearsi dalle prime strofe alle ultime del Canto
popolare si tacita prima nell'altezza immota di Picasso
e poi nell'angoscia memoriale di Comizio, fino a
rivelarsi, nell'Umile Italia, come semplice, stridente,
difficilissima contraddizione che, come tale, può
solo ripresentarsi:
Dove meglio capire, intera,
la natura che deve farsi
nazione, l'ombra che s'avvera
nella chiarezza?
[...]
Questa è l'Italia, e
non è questa l'Italia: insieme
la preistoria e la storia che
in essa sono convivano, se
la luce è frutto di un buio seme.(12)
Può la "natura" farsi "nazione"?
E la "preistoria" scriversi nella "storia"?
Forse. La "dura" ma ottimistica "certezza"
degli ultimi versi del Canto popolare è affidata
qui a una debole ipotesi, e l'unica speranza è un'esortazione
alla convivenza, almeno alla convivenza, perché allo
stesso tempo "questa è l'Italia, e / non è
questa l'Italia", dove si noti che l'enjambement
spinge il carico di senso sulla negazione, e non sull'affermazione.
L'umile Italia non sfugge a questa contraddizione,
mai risolta, ossessiva, fino alle ultime due strofe, dove
l'ormai cauto ottimismo del precedente "convivano"
si ribalta in un deciso ritorno indietro, anche rispetto
al Canto popolare, con un "eppure" davvero
perentorio che anticipa lo stacco fra le strofe stesse,
e con quella parola chiave, "tempo", che nel suo
ripetersi muta gradatamente di significato, da quello della
storia, del "capire" e del "fare", a
quello della vita (in senso pasoliniano): "vano",
"umano", "allegramente terrestre". E
infine un "incanto" solo nel volo delle rondini
con cui l'intero poemetto era iniziato, uno "schianto"
e un "addio", una linearità che si "volge",
nel nome ripetuto di quegli uccelli primaverili che forse
oppongono proprio nel loro nome l'eterno giro leggero di
un rondò alla solida progressione della storia. Sono
a mio parere fra i più bei versi di Pasolini:
È necessità il capire
e il fare: il credersi volti
al meglio, presi da un ardire
sacrilego a scordare i morti,
a non concedersi respiro
dietro il rinnovarsi del tempo.
Eppure qualche cosa è più
forte del nostro ardore empio
a maturare nella mente
a fare della natura virtù.
E ci trascina indietro, al fresco,
all'arso tempo, al tempo vano,
assordato dalle vane feste
dell'umile gente, al tempo umano,
al tempo allegramente terrestre,
al tempo che vive il suo incanto,
con le rondini, nel solatio
paese padano, nel fianco
dei freschi colli, e che di schianto
voi volgete, rondini, all'addio.(13)
È chiaro, ormai, che, se la contraddizione è
destinata a sciogliersi, certo non sarà nel senso
ideologico e ortodossamente progressista che il Canto
popolare sembrava indicare. Ed è solo dopo la
naturalità innocente dei Quadri friulani,
quando infine giungiamo al poemetto che dà il titolo
all'intera raccolta, che nella raccolta stessa si rivela
il vero percorso intellettuale: non da una passione vitale
a un'ideologia che la indirizzi, ma solo una passione vitale
che, fatti i conti con il quadro ideologico che potrebbe
(vorrebbe?) racchiuderla, se ne libera per essere semplicemente
se stessa, paga di sé come lo sono, altrove, i Ragazzi
di vita. Davanti alle Ceneri di Gramsci, infatti,
il "cuore" cede alle "viscere", la "coscienza"
cede alla "natura", la "lotta" all'
"allegria":
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
- nel pensiero, in un'ombra di azione -
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell'estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza: è la forza originaria
dell'uomo, che nell'atto s'è perduta,
a darle l'ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia ...(14)
"Nostalgia", tristezza forse, un senso di vuoto
incolmabile per incapacità, un seppellirsi e un perdersi
nel martellante ripetere la negazione nell'ultima terzina,
ma anche un coraggioso riconoscersi, un accettare il proprio
istinto e ciò che attrae, un gridare finalmente il
"calore dell'estetica passione", un cercare la
"luce poetica" dove solo può essere cercata.
Di questo parlerà poi Il pianto della scavatrice:
di gridi di gioia e di lacrime, di "borgate beduine"
e di "nudi praticelli erti", di storia fatta sogno,
"in questa / mescolanza di beatitudine e di dolore"(15).
E c'è spazio infine, nella raccolta, solo per una
Polemica in versi contro il progressismo istituzionale,
e per la non speranza del poemetto forse più bello
dell'intera raccolta, La terra di lavoro.
Due testi veramente paralleli dunque, e non solo per cronologia,
Ragazzi di vita e Le ceneri di Gramsci, dove
il secondo fa da quadro di riferimento per il primo, e in
qualche modo ne motiva e ne sostanzia le scelte narrative.
E qui un'ultima considerazione: è noto che nel 1949
Adorno ebbe a negare, dopo Auschwitz, la possibilità
e il valore del fare poesia, ed è altrettanto noto
che la sua affermazione, lungi dal causare l'irreversibile
morte dell'atto poetico, fu nella maggior parte dei casi
interpretata come un invito all'abbandono delle vecchie
forme, e delle vecchie solitudini ermetiche. Da qui un diffondersi,
in Italia e non solo, di una poesia più ragionativa
che nel passato, più aperta a un confronto mente
cuore e più disposta a un esplicito riferimento alla
storia: Pavese, certo, ma anche l'Ungaretti del Dolore
e il Montale post-bellico. Su tutti però, sicuramente
Pasolini, che nel suo fare di scrittore definitivamente
ribalta il vecchio modello classico, per cui da Petrarca
a Leopardi, dal Secretum allo Zibaldone, è
la prosa a spiegare e motivare la contemporanea poesia che,
da sempre, reclama per sé solo lo spazio delle pure
emozioni. Ed ecco che si scrive un romanzo tenacemente ancorato
alla proterva allegria di un mondo astorico, mentre su un
altro tavolo la poesia si incarica di attraversare e documentare
il doloroso percorso che porta proprio a quella scelta:
non so indicare una più orgogliosa affermazione della
"diversità" pasoliniana.
Andrea Matucci
Note
(1) P. Pasolini, Ragazzi di vita, Milano, Garzanti,
1971, p. 32.
(2) Ivi, p. 144.
(3) Ivi, p. 32.
(4) Ivi, p. 195.
(5) Ibidem.
(6) Ivi, p. 196.
(7) Ivi, p. 197.
(8) Ibidem.
(9) P. Pasolini, Le poesie, Milano, Garzanti, 1971,
p. 17.
(10) Ibidem.
(11) Ivi, pp. 19-20.
(12) Ivi, p. 48.
(13) Ivi, p. 51.
(14) Ivi, p. 73.
(15) Ivi, p. 109.
(dicembre 2015, pubblicato a gennaio 2016)
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