Emèresi

rivista di scrivere, di leggere, di commentare, di ragionare la letteratura

Home Letteratura Critica Teorica Libellus Editoriali Procedure Biblioteca Staff
 
Critica

Le "inclusioni" del lettore e le poesie di Nunzio Di Sarno

 

I testi inviati da Nunzio Di Sarno (pagina Letteratura) danno lo spunto per chiarire una definizione già usata in altro luogo ma non approfondita. La premessa teorica intende perciò validare certi tratti stilistici di cui si parla nella recensione alle poesie.


di Luigi Arista

 

 

LE INCLUSIONI DI SIGNIFICATO DEL LETTORE

 

Nell’articolo sull’importanza del ritorno a capo in poesia (vedi Teorica) e anche altrove, ho parlato di un tipo di poesia, un tipo d’opera, aperta a “inclusioni” di significato da parte del lettore. La questione non si pone nei termini che un lettore viene autorizzato ad attribuire significati arbitrari a un testo. Ciò che nel testo è esplicito, infatti, non è in discussione. Un testo volontariamente non esplicito, o volontariamente ambiguo, invece, pone le condizioni per quella interrogazione sul senso che non solo autorizza bensì addirittura dovrebbe stimolare il lettore ad aggiungere i possibili “pezzi mancanti”. Come ho appunto detto, oggi: «in poesia si possono trovare fenomeni di parola o fraseologici sui quali si bisticcerebbe per collocarli entro un genere e un tipo di “figure”, una dilatazione del tropismo, se è lecito dire, che non è più un dato spostamento semantico bensì un significato incognito da svelare; cioè fenomeni in cui una certa sconnessione di un discorso o omissioni di nessi conduce a vuoti di significato che eccitano l’intelletto del lettore per colmarli.» Il campo degli spostamenti semantici si allarga alle relazioni di significazione soggettive sentite dal poeta.
La poesia è descrizione, è narrazione, è discorso armonioso, è creazione di immagine, è metafora, è discorso e filosofia, è parola simbolica, è sonorità. Ma può anche essere volontariamente cenno, discorso a metà, allusione nascosta; può ambiguamente offrire e celare, scavando la forza intrinseca della parola. Un esempio quasi scherzoso: visto che il primo verso de L’infinito ci dice «Sempre caro mi fu quest’ermo colle», noi potremmo chiedere a Leopardi di essere più esplicito? Giacomo qual è quest’ermo colle? Non sono lì con te che me lo additi, dunque non lo vedo, allega almeno un disegno per farmi capire. No, non potremmo chiedergli nulla: quel colle è suo, e anzi a noi giova sapere che vi è un colle, o vagheggiato o reale ma che noi non conosciamo, dov’egli certamente va almeno col pensiero, e lo immagineremo, immagineremo la scena che conta, ai fini del senso della lirica, tramite quel che sarà detto nei versi successivi. Quindi saremo noi a includere l’immagine del colle e della siepe che copre allo sguardo la «tanta parte / dell’ultimo orizzonte».
Ma si può essere più seri ed esaurienti se prendiamo uno dei testi di Ungaretti che chiedono in modo evidente una partecipazione inclusiva da parte nostra, come scrive Agosti (Grammatica della poesia. 5 Studi, 2007): «per il fitto reticolo di relazioni su cui poggiano gli elementi lessicali di superficie implicati nelle varie figure - analogie, sinestesie, allusioni -, tutte ruotanti attorno al non-detto, al non-riferito: da cui la sovrana esibizione della verbalità, in tutta la sua interezza semantica, non intaccata da nessun ordine di significati visibili.» Prendiamo Grido (datato 1928):

Giunta la sera
Riposavo sopra l’erba monotona,
E presi gusto
A quella brama senza fine,
Grido morbido e alato
Che la luce quando muore trattiene.

Nel cui caso, senza che nulla lo dica nel testo, la nostra inclusione di significato non potrà che essere l’appassionato piacere intimo provato di fronte a un tramonto. E il gusto della poesia sarà quella particolare descrizione di un tramonto e l’impressione che se ne può provare. Osserviamo che l’inclusione la attueremo grazie al finale: la poesia non avrebbe senso compiuto se non vi fosse relazione fra il «grido morbido e alato» e la «luce» che «quando muore trattiene», ed è evidente che il grido è la trasposizione sul piano sonoro di una visione, la visione della luce rossa del tramonto, di un rosso che, quale colore della passione, ricaviamo dalla semantica di «brama». Anche Agosti dà una spiegazione analoga, più strutturata, sul piano semantico, su quello delle sinestesie e sulle trasposizioni sensitive che giustificano l’attribuzione di un tale significato. Egli cioè non usa la mia definizione di inclusione (termine che sta dalla parte del lettore) bensì usa preferibilmente la parola trasposizione (l’operazione compiuta dallo scrittore), ma il risultato dell’analisi non cambia.
Una poesia come quella di Ungaretti è elaborata essenzialmente sulla semantica, alla quale ovviamente si accorda il ritmo (cadenze accentuative e suoni delle parole) senza tuttavia che questo prevalga sull’aspetto semantico, ma anzi quasi servendolo attraverso la sua stessa semplificazione. In Italia, il rifiuto dell’ermetismo nel secondo Novecento ha dato luogo a canoni poetici o prevalentemente prosastici, o prevalentemente fondati su novità del ritmo, dimenticando per quanto riguarda quest’ultimo che l’eccessiva esibizione del ritmo esorbita dalla sua eminente funzione, non solo tradizionale ma addirittura istituzionale, di accompagnare, affiancare, corroborare il risultato semantico dei versi, poiché in definitiva una poesia è significazione. Questa osservazione ovviamente è rivolta ai casi in cui il ritmo si pone come elemento dominante sul senso.
Insomma a mio avviso oggi bisognerebbe coltivare, da scrittori, e accogliere da lettori una poesia che, niente affatto sproloquio autoreferenziale e narcisistico privo di interesse, soprattutto tramite la funzione semantica attiva in realtà quegli stimoli inclusivi di cui ho detto, distogliendoci peraltro dal prepotere della logica a favore della via analogica, ovvero della creatività. Prendiamo un caso del Nobel per la Letteratura 2011, Tomas Tranströmer, Marzo '79 scritta nel 2015:

Stanco di chi non offre che parole, parole senza lingua,
sono andato sull'isola coperta di neve.
Non ha parole il deserto.
Le pagine bianche dilagano ovunque!
Scopro orme di capriolo sulla neve.
Lingua senza parole.

Qui nel primo verso abbiamo una traccia della riflessione compiuta dal poeta: egli è stanco di chi offre solo vane parole, ma la compiutezza del senso è affidata alle nostre inclusioni. E noi scopriamo che viene espressa la distanza interiore da un mondo umano che non offre nulla di vero e la vicinanza alla natura pura (inclusione di senso per «isola coperta di neve»), in cui tutto è segno che esprime qualcosa di sé (inclusione di senso per «orme di capriolo sulla neve») senza aver bisogno di effimeri o mendaci edifici culturali (inclusione di senso per «Non ha parole il deserto» e «pagine bianche dilagano ovunque»), ma parlando solo in quanto se stessa (inclusione di senso per «Lingua senza parole»). Per approfondire il perché della poesia si dovrebbe ricordare l’interesse particolare dello psicologo svedese al tema del linguaggio e la sua considerazione della lingua della natura come lingua primordiale che tutti possono capire. Ma per esemplificare l’argomento della poesia aperta alle inclusioni di significato è sufficiente quanto si è detto.
Quel che preme sottolineare è che questo genere di poesia non ritorna al passato, ma è proprio una delle migliori vie possibili per la poesia di oggi, uno dei migliori sviluppi del patrimonio passato, rispetto ai tanti esperimenti linguistici e ritmici che si sono succeduti dalla neoavanguardia a questi primi anni duemila. Non si tratta affatto di considerare allora una poesia alla stregua di un gioco enigmistico, ma di cercare di seguire le analogie verbali e figurali che il poeta ci propone nella vastità delle possibilità di senso che la lingua possiede.

 

 

LE POESIE DI NUNZIO DI SARNO

 

Quanto sopra è un chiarimento che forse necessitava, relativamente all’uso da me fatto in altre circostanze del concetto di “inclusione di significato”. Ma il chiarimento motiva anche l’interesse a pubblicare alcuni testi di Nunzio Di Sarno (vedi Letteratura). Si tratta di inediti, e l’autore sembra cercare, attraverso un numero esiguo di esemplari per la verità, una conferma al lavoro che conduce. Di Sarno si presenta indicandoci parte della sua formazione culturale e letteraria: «Mi sono laureato in lingue e letterature straniere con una tesi in storia dell’arte contemporanea su Ginna e sulla connessione tra spiritualismo, teosofia e astrattismo. Ho cominciato a scrivere da ragazzo, prima sotto l’influenza dei poeti francesi dell’ottocento (soprattutto Baudelaire, Verlaine e Rimbaud) e poi di Kerouac, Ginsberg, Corso, O’ Hara, Burroughs, Miller, Celine… A vent’anni fui molto colpito dall’essenzialità e dalla potenza degli haiku, convinto come Kerouac che in occidente debbano trovare una forma nuova, slegati dalla struttura metrica 5/7/5 e da espedienti propri solo della lingua giapponese. Piuttosto va ricercato il contatto tra satori e creazione, tra pratica meditativa e scrittura. Da lì ho cominciato a studiare le filosofie realizzative, cercando di farne esperienza ogni volta che ho potuto.» Dunque notiamo una ricerca spirituale (la Teosofia, ma probabilmente anche l’Antroposofia di Steiner e dottrine orientali), una base poetica importante, il simbolismo francese e altri grandi autori, e un’applicazione quasi minuziosa alla poesia anche attraverso gli haiku. Ma lasciamo da parte queste informazioni (chieste da noi per presentare l’autore ai lettori) senza farcene influenzare e leggiamo i suoi testi.
Dei pochi esemplari di Di Sarno, a parte l’ultimo nell’ordine, Natale, che possiede struttura e tono da filastrocca, siamo ben impressionati dagli altri tre. La struttura in distici, il minimo della strofa, intende rendere incisivo, dare vigore a ogni tratto del discorso. Discorso che è già incisivo di per sé, nella generale fraseologia prosastica (notiamo due soli enjambement marcati) e dotata di una sintassi estremamente regolare, e talvolta nella forza verbale di sentenze o ammonimenti. Si può dire dunque che questa poesia sia molto colloquiale con il lettore, tuttavia alcuni dei momenti più suggestivi si trovano proprio là dove i versi chiedono d’essere compresi al di là della parola detta. Magari i punti meno comprensibili sono semplicemente assemblaggi casuali di riflessioni del poeta («Le chiacchiere speziate / Il fumo e niente sonno / Le domande dell’alba / Su fisica e letteratura»), oppure sono metaforismi del poeta in cui è necessaria una nostra inclusione di significato: «Nella rete sempre più fitta / Del domino delle epifanie». Nei due versi appena trascritti il significato potrebbe essere: la rete che si crea con nessi casuali come nel gioco del domino fra scoperte scientifiche e rivelazioni filosofiche. Questo senso è apparentemente del tutto arbitrario. Ma l’ipotesi assume qualche credibilità se pensiamo ai precedenti «Le domande dell’alba / Su fisica e letteratura» e al successivo «A rincorrere le ragioni», perché quella rete «brucia in una notte / E non lascia che cenere» di tutte le nostre convinzioni o credenze. Se invece fosse proprio un senso arbitrario, allora Ungaretti letto oggi avrebbe lo stesso problema, perché nonostante la sua poesia Grido non si è mai affermata nella mente dei parlanti italiano una corrispondenza semantica fra la parola «grido» e la luce rossa del tramonto. Ma quelle due poesie, di Ungaretti e di Di Sarno, sono così, e possono procurarci i loro effetti come sono. D’altra parte non è mai stato certo neppure che Dante venisse meno per la pietà provata nei confronti di Paolo e Francesca o se non fosse per il solo Paolo che piangeva, perché, a rigore, i versi dicono «mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro piangea sì, che di pietade / io venni men così com’io morisse» e ammettono entrambe le possibilità.
E ancora d’altra parte, tornando ai versi dell’autore in esame, vi è un punto esauriente che dice interpretatemi come meglio credete. Si tratta del distico «Dove non c’è Spazio per il Vuoto / La Parola non può toccare il Cuore». Bella intanto l’antitesi spazio-vuoto, dove il vuoto è la purezza interiore, la pulizia dai pregiudizi o presupposti culturali, che accoglie. Ebbene, ma qual è la Parola che non può toccare il cuore, il sentimento, se non c’è quel vuoto accogliente? Parola è scritto maiuscolo, e pertanto si penserebbe alla parola biblica, al Vangelo, intendendo perciò nei versi una professione di fede cristiana. Ma Parola maiuscolo può avere un valore semantico molto più esteso, per esempio secondo l’uso che ne fanno linguisti e critici, quando distinguono fra Langue e Parole o parlano di parola poetica per indicare il fraseggiare o lo stile o la tipica verbalità di un autore, o può voler dire il parlarsi, il comunicare, scritto maiuscolo per sottolineare l’importanza del parlarsi, può diventare cioè il significante della relazione interpersonale profonda. In questo caso nel distico interpreteremmo una professione di socialità amorevole, umanistica, indipendentemente dal credo religioso. Qui dunque il senso da attribuire tocca del tutto al lettore, oppure lo si accetta indecidibile e proprio per questo più intenso, perché nel binomio dei significati c’è qualcosa di unificante: il desiderio di umanesimo.
Detto questo, ora il poeta probabilmente vorrebbe sentir parlare di cosa dicono gli altri suoi versi, tutti i suoi versi, di qual è il discorso che egli conduce e che pensieri suscita. Ma non è così che si fa, o non è così che si fa ora, con pochi brani in mano e peraltro cosparsi di punti che fanno ben intendere lo stato d’animo e la filosofia circolanti di fondo. Noi qui al momento lasciamo che i versi suscitino nei lettori le emozioni che offrono. Ogni altro risvolto di dettaglio contenutistico al momento sarebbe improbabile e inutile, e perciò attendiamo Di Sarno alla pubblicazione di una silloge che a lui sembri completata. Perciò lasciamo da parte la discussione del merito di cosa queste poesie portano dall’emozione o dalla suggestione alla coscienza e torniamo alla poesia in quanto forma di linguaggio. E certo non ometteremo di dire che nei versi letti troviamo belle immagini descrittive: «Avevamo gli occhi neri / Pance in fuori e visi tondi / Nelle strade corte di paese», e belle metafore circostanziali e dell’interiorità: «E s’avanzava senza padri / O nelle galere delle madri», «Ognuno in cerca della Strada / Pochi incontri agli incroci», con immediati incisivi vagheggiamenti: «Napoli Atene via Istanbul / Just a bigger crossroad», e altrettanto incisive schegge di metaforismi filosofico-morali: «Dove la Natura è Famiglia / L’indigeno fiero resiste», oppure anche ammonimenti filosofico-morali espliciti ben costruiti poeticamente: «Il sudore che non porta all’umiltà / Rende inutile qualsiasi semina.» E ci fermiamo a questi esempi.
Altri momenti interessanti nei versi del nostro poeta sono nell’inserimento di citazioni in sanscrito o di frasi di canti sacri (di guide spirituali contemporanee straniere), coerenti col testo in italiano e, al di là del loro significato, godibili nell’immediato per la resa di un certo effetto di formula liturgica, e di per sé lodevoli se non altro per la modernità della commistione linguistica. Infine, come dicevo nella premessa teorica, il ritmo (sempre inteso come insieme di fenomeni sonori particolari ed evidenti) limita se stesso alla cadenza accentuativa, peraltro secondo una scelta di metri ben adeguata alle parti del discorso. E insomma nel complesso, e ripeto, nei limiti dei pochi testi ricevuti, la poesia di Nunzio Di Sarno mi sembra di un buon livello, certamente all’altezza di molte scritture moderne.

Concludo preso alla sprovvista dall'arrivo inaspettato di altre due prove dello stesso autore, che ritengo di livello inferiore a quanto ho giudicato finora. Si tratta cioè di testi più discorsivi e meno pregnanti, poveri di "figure", che rischiano di rimanere in un ambito personalistico (poesia intimistica). Forse Di Sarno è conteso, magari in questo periodo, fra una spinta effettivamente poetante e un'altra concettualizzata e in un certo senso dottrinale, cioè mediata da qualcosa che non è il punto di partenza della poesia. Mi auguro che quest'ultima considerazione possa essere d'aiuto allo scrittore e non trascrivo (alla pagina Letteratura) i due brani appena giunti.



Luigi Arista (luglio 2018)

In questa pagina:

 

- articoli, contributi e studi critici originali, editi o inediti;

- commenti critici, editi o inediti, a contributi e studi altrui (con relative citazioni in accordo ai diritti di citazione*).

 

*Diritti di citazione: il riassunto o la citazione di brani o di parti d'opera, per scopi di critica, discussione e insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera.

 

 

Archivio

Rivisitazioni contemporanee di Arturo Onofri

di Luigi Arista

nel n. 12 del 28 febbraio 2018

Recensione di Tempus tacendi di Matteo Veronesi

di Andrea Matucci

nel n. 11 del 9 novembre 2017

I "passi sui sassi" di Cinzia Della Ciana

di Matteo Veronesi

nel n. 10 del 30 agosto 2017

La lingua delle visioni: "post meridiem" di Marco Senesi

di Luigi Arista

nel n. 9 del 27 giugno 2017

Un'audace postilla di critica (su Leopardi)

di Luigi Arista

nel n. 8 del 12 maggio 2017

Tradurre per invidia. Sereni sulla via di Char

di Neil Novello

nel n. 7 del 5 febbraio 2017

Dialogo con Pavese: "Legna Verde"

di Andrea Matucci

nel n. 6 del 15 novembre 2016

Gadda legge I promessi sposi

di Daniela Faragli

nel n. 5 del 25 agosto 2016

Gli Islamici nella Gerusalemme Liberata

di Andrea Matucci

nel n. 4 del 15 maggio 2016

L'Introduzione al mondo secondo Idolo Hoxhvogli

di Luigi Arista

nel n. 3 del 28 marzo 2016

Pasolini anni '50: passione o ideologia

di Andrea Matucci

nel n. 2 del 17 gennaio 2016

Home Letteratura Critica Teorica Libellus Editoriali Procedure Biblioteca Staff Top Page

 

© Tutti i diritti come riservati nella home-page del sito. Dati legali alle Note Legali.