di Luigi Arista
In ogni genere metrico di poesia un ingente patrimonio
significativo va perso se nella lettura, orale o silente,
non vengono rispettati con una pausa calibrata della dizione,
nell'un caso, o con una mentale intenzione sospensiva, nell'altro,
i ritorni a capo fra i versi. Cercherò di dimostrarlo
con esempi su brani dal genere classicamente regolato al
verso sciolto alla modernità del verso libero, cioè
dove l'a capo è investito di propositi poetici diversi
mantenendo la sua necessità. Negli esempi verrà
evidenziata una gamma di fattori di poeticità vertendo,
forse noiosamente, alla considerazione del fatto che l'a
capo o li realizza o li consente quale distanziatore silenzioso
di occorrenze sonore e semantiche.
Spero, per esser chiaro in anticipo, che la ricerca puntuale
sui testi dei più o meno evidenti effetti che essi
producono (e che per giunta ho chiamato poeticità)
non venga scambiata come «feticismo strutturalista
per il testo chiuso e autosufficiente» (Fusillo, Estetica
della letteratura, 2016) che ha «modellato la
sua nozione di testo a partire dalle forme più chiuse
e classiche», mentre le teorie posteriori avrebbero
dimostrato «come in altre epoche il testo letterario
si sia configurato in modi assai diversi» attraverso
«fenomeni come l'oralità, in cui il testo,
quando c'è, è solo una traccia per un evento
performativo, dove conta la pienezza del corpo e della voce,
e la poesia tende a sganciarsi dai vincoli semantici e retorici».
Per ben altro che non la pienezza del corpo e della voce
la poesia si slega dai vincoli semantici, cioè per
la sua natura di scrittura in versi, e proprio per questo
slegamento la retorica non fa che rincorrere tecnicamente
quel che accade sul piano semantico, il più incerto
della linguistica. Su certi eventuali equivoci posso solo
ripetere concetti che ho già scritto altrove. Ovvio,
la lettura individuale e silente, la declamazione orale
e pubblica, la trasposizione, la recitazione sono tutti
momenti performativi che danno esecuzione a un'opera, e
come tali sono momenti inventivi poiché ogni esecuzione
passa da un'interpretazione dell'opera. Ma questa è
il risultato dell'atto inventivo originario che stimola
tutti i successivi, e se presso l'esecutore lo stimolo inventivo
viene eccitato si deve alla fattura dell'opera. Dunque fino
a che punto l'inventiva soggettiva dell'interpretazione
è lecita? Fin dove l'opera non la smentisce, e innanzitutto
l'opera smentisce apriori ogni interpretazione che ne cambia
la forma, perché cambiando la forma si altera la
sagoma dei significanti modificando il risultato dei significati.
Quando si cambia la forma si fa un'altra opera, basta ammettere
questo. Mentre io qui porto esempi sull'evento formale basilare
di un'opera poetica, il ritorno a capo, di cui l'opera non
può smentire che ci sia, perciò il mio lavoro
non è feticismo per il testo chiuso e può
trattare di lettura orale e silente che, di là da
ogni interpretazione, dà risalto agli a capo per
ciò che formalmente sono, ovvero pause motivate del
discorso poetico, con le conseguenze ricettive che ne derivano.
Si potrà dire che tali conseguenze sono soggettive,
ma si tratta almeno di un'inventiva che non ha realizzato
un'altra opera solo per non aver capito come penetrare in
quella originale. E comunque si arriverà a un punto
in cui gli effetti o i significati recepiti sono effettivamente
da intendere quale esperienza individuale del testo, così
come indotta dalla poesia e più in generale dall'arte
contemporanea, che concepisce la sua pluralità non
nel senso che tutti recepiscano la stessa cosa ma che in
tutti si ecciti qualcosa, esperienza anche migliore se poi
condivisa.
Ma quest'ultimo è un altro discorso e passo alle
letture. ... continua
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(pubblicato ad agosto 2017)
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