Critica a Introduzione al mondo di Idolo Hoxhvogli
di Luigi Arista
Ho ripensato diverse volte il carattere della mia critica
a Introduzione al mondo, libro di Idolo Hoxhvogli
che aveva avuto un'edizione nel 2011 e che recentemente
mi è stato recapitato dall'autore nella seconda,
del 2015, per ottenere una recensione. Già al termine
della prima lettura il libro mi era sembrato 'esagerato'
e assai discutibile nella sostanza. Poi mi sono imbattuto
nella prefazione, di Sonia Caporossi, ovviamente favorevole
ma di tono 'saputo' e più acclamante rispetto a quella
che la stessa prefatrice aveva scritto nel 2011. A quel
punto, riletto e approfondito il testo e sempre più
convinto della mia opinione, mi sono reso conto che una
recensione, che è critica sommaria, sarebbe stata
insufficiente. Come dovendo agire per una necessaria compensazione,
bisognava che scendessi a qualche livello analitico e dimostrativo,
e stabilire quel livello mi ha intrattenuto a lungo.
La prefazione 2015 della Caporossi solleva, più che
la 2011, molte perplessità, ultima delle quali nell'ordine
in cui si presenta, ma che diventa forse il maggiore disappunto,
nasce da questa affermazione sul filo del traguardo:
«C'è il pericolo di scambiare questo testo
per un pretenzioso e smargiasso delirio di onnipotenza
dell'autore nei confronti della parola letteraria e del
narrabile. Non è così. Basta gettare la
maschera e dismettere il proprio ego per comprendere la
forza evocativa di questa beffarda e impietosa atrocity
exhibition, di questa deformazione teratologica della
materia immateriale del dicibile e del pensabile.»
Cioè lì, contando sulla forza persuasiva
di una verbalità altisonante, la cui specificazione
finale è per me di senso incomprensibile, Caporossi
conclude sul testo in questione, di cui prima ha tradotto
ogni aspetto in un elemento di qualità e merito.
Ma la cosa davvero fastidiosa è che ella veda nelle
valutazioni discordi dalla sua una questione di ego,
mentre solo averlo pensato pone la domanda su quale sia
l'ego più espanso.
Io non ho scambiato Introduzione al mondo per uno
«smargiasso delirio di onnipotenza». Ho esaminato
una prova di letteratura mal riuscita, sebbene il progetto
avesse intenti innovativi. Certo, Hoxhvogli ne esce come
giovane che si è compiaciuto anzitempo di una certa
inclinazione alla scrittura, mentre deve ancora lavorare
a chiarirsi gli obbiettivi. Circa le smargiassate giovanili,
credo piuttosto che Caporossi avrebbe fatto meglio a operare
entro quella che dovrebbe essere la 'misura' del critico,
personale nell'interpretazione e nello stile ma misurata
sugli scopi della critica e non su quelli dell'apologia.
Così penso ai giovani, e in particolare penso ai
giovani colti, laureati e oltre, a quanto spesso anch'essi
siano per così dire 'furenti' nelle loro pratiche
intellettuali, e somiglino a tanti di quelli che non hanno
studiato. Questi giovani non hanno appreso dagli studi una
lezione: a una cultura sana gli atteggiamenti eclatanti
non servono e anzi sono nocivi, in specie entro una realtà
socio-culturale come l'odierna, di cui ogni manifestazione
è spettacolarizzata a fini speculativi. Conta piuttosto
la solidità delle proposte, che non si accerta nel
clamore di oggi ma nella durevolezza di domani. Invece,
siano autocompiacimenti illusori o vere e proprie smargiassate,
nel libro sottomano noto un simile retroscena intellettuale
'gridato' dell'opera e della prefazione. Perciò,
il mio commento a Hoxhvogli è porto con le sopracciglia
aggrottate ed è anche, inevitabilmente, una replica
alla Caporossi.
E dunque questo libro, che non so classificare in un genere,
nella sua seconda edizione del 2015 è corredato di
una seconda prefazione, disponibile per eventuali raffronti
anche nel web tra le pagine del blog "Critica impura".
A proposito di classificazione, la prefatrice lo considera
"romanzo di formazione" - scritto in tedesco,
Bildungsroman, perché le definizioni in lingua
originale (qui da quella del Wilhelm Meister di Goethe)
sono sempre dei bei fiori all'occhiello per un critico -
aggiungendo però che lo è «dei tempi
ultramoderni». Io credo che sia assurdo dire questo,
anche invocando l'ultramodernismo. Lo sviluppo del testo
non delinea e non contempla una formazione, né dell'autore,
né di un narratore né di un personaggio, né
infine rivolta al lettore.
Circa il narratore - improbabile perché non c'è
un principio narrativo - o semmai l'autore, questi risulta
in grado di osservare acutamente e criticare tutto fin dal
principio, possiede già tutta la cultura e l'esperienza
di vita, non ha bisogno di crescere. I personaggi - non
veri personaggi ma figure in prestito temporaneo a particelle
separate di un discorso generale - sono inerti, insieme
agenti e vittime incoscienti delle situazioni e dei fatti
del mondo. Quanto al lettore, le alternative sono due. Quello
impreparato, inconsapevole o non del tutto consapevole,
pare doversi solo scandalizzare di appartenere a quel mondo;
a lui non sono offerte indicazioni, vie di fuga, soprattutto
nessuna delucidazione: le cose stanno così e basta.
Tuttavia all'impreparato non basta sapere soltanto che «le
radici sono nel futuro» e che «Tutti apparteniamo
a un'altra riva, e questo ci unisce» per comprendere
la necessità di rifondare un'intera civiltà.
Ma l'ipotesi dell'impreparato peraltro è teorica.
L'altro tipo, quello consapevole, si trova davanti a un'ampia
sventagliata di micrometraggi critici (brevi storie, piccole
cronache, scene e scenette, minime affabulazioni, sentenze,
formule e grafici da neofuturista), di tendenze fra il drammatico
ironico e il satirico anche pesante, di cose che sa e riconosce.
Può avvenire che ne ricavi una formazione? No; poiché,
appunto, il consapevole le cose già le sa. Quindi
niente formazione.
Comunque, che il genere del libro sia uno o un altro, la
sua idea migliore sta proprio nel non essere 'romanzo'.
Come s'è capito, è un libro di frammenti,
che insegue un medesimo significato globale (salvo l'esito)
ma per frammenti. La prefazione accenna al frammentismo
ma con circospezione: «L'intenzione filosofico-pedagogica
tipica del genere è evidente, si palesa all'interno
della costruzione apparentemente frammentaria, in realtà
sistemica e preordinata». In particolare si cerca di
dissuadere il lettore che il testo abbia qualche referenza
nei frammenti dei Minima Moralia di Adorno: «Introduzione
al mondo può sembrare al lettore più avvezzo
e accorto una sorta di omaggio ai Minima Moralia
di Theodor W. Adorno». Da un altro lato la prefatrice
fornisce fra molte queste coordinate culturali, prima: «Il
libro è pregno di suggestioni della migliore filosofia
di indagine sociale, specialmente Adorno» e poco avanti:
«Alle spalle di Idolo Hoxhvogli c'è una vasta
cultura filosofica che affonda le radici nella Scuola di
Francoforte», contesto di cui si sa che Adorno fu uno
dei protagonisti più noti. Sembra evidente l'intento
di prevenire sospetti di emulazione, forse nel timore che
la costruzione per frammenti e le corrispondenze dell'argomentare
critico adombrino l'originalità del lavoro di Hoxhvogli.
Onde per Caporossi esso è: «un mosaico di parabole
affastellate secondo l'adagio dantesco dell'anagogia.»
Un momento: intanto Dante, rigorosissimo, affastella? Poi,
l'interpretazione spirituale dei testi sarebbe un «adagio
dantesco»? E per giunta in questo scritto si reperirebbe
un «sovrasenso; che è quando spiritualmente
si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio
nel senso litterale, per le cose significate significa de
le superne cose de l'etternal gloria» (così
Dante, conforme all'esegesi medievale, Convivio,
II, I 6). Ma che dice costei? Come mai questo testo le risulta
tanto scomodo da presentare?
Credo che occorra un chiarimento. Hoxhvogli ha inteso consegnare
alle stampe un'opera letteraria, non un elaborato filosofico.
Ciò non esclude che egli abbia avuto riferimenti
di pensiero e autori preferiti. Ora, certo è bene
scrutare chi siano i referenti ai fini della migliore conoscenza
dell'autore e della filologia del testo, ma l'opera letteraria
non è nella sua filologia. Per valutare il testo
bisogna perciò liberare questo autore, renderlo incolpevole
delle sue letture e considerare eminentemente la 'sua' scrittura.
Dunque procedendo per la via che giudico corretta torno
al frammentismo.
Nel dilagare moderno della narrativa per tutti i generi
tematici, la prosa per frammenti è rara, e siccome
per lo più è mista di riflessioni, aforismi,
piccoli saggi, talvolta appunti per altri testi e loro residui,
ha spesso significati slegati e appare una scrittura marginale
o riservata, perciò minore. Hoxhvogli non progettava
affatto una scrittura minore; voleva realizzare uno sviluppo
di frammenti che risultasse, intanto, testo compiuto e,
inoltre, di qualità incidente, sferzante, come dire
il cui atto di lettura fosse persistente. In tal senso la
scelta strutturale, al di là dei risultati conseguiti,
sarebbe stata funzionale alle intenzioni: il frammento,
anche quand'è tessera di un mosaico concluso in sé,
nell'attimo di quella pausa che si insedia fra l'uno e il
successivo, dà modo di fissarsi all'impressione o
alla riflessione (dipende dai contenuti), che di frammento
in frammento si accumula o si colloca in un certo posto
dell'insieme.
Un altro connotato generale di Introduzione al mondo
mi ricollega di nuovo al discorso della prefatrice. Ella,
dopo aver sottolineato la «vasta cultura filosofica»
dell'autore che: «affonda le radici nella Scuola di
Francoforte e nella filosofia marxista pre e post Sessantotto,
Lukàcs, Sartre e Benjamin» continua dicendo:
«Aleggia anche Marcuse, depurato dalle impostazioni
ideologiche meno attualizzanti e più visionarie,
utilizzato in funzione grottesca, con la sua esaltazione
del potere liberatorio ed emancipatorio del sesso, reso
vittima della mercificazione massmediale e sociale.»
Qui Caporossi tocca un'eccellenza del parlare a se stessa.
Che vuol dire che Marcuse è «utilizzato in
funzione grottesca»? Possono esistere due interpretazioni
opposte. L'una: le idee espresse dal filosofo in Eros
e civiltà sono assunte come veritiere, perciò
vengono mostrate le conseguenze grottesche cui siamo incorsi
a causa della repressione del cosiddetto 'principio di piacere'.
L'altra: le idee del filosofo sul potere emancipatorio dell'eros
sono da considerare infondate, perciò vengono mostrate
le situazioni grottesche prodotte dall'eros liberato. Il
fatto che il sesso sia dichiarato «vittima della mercificazione»
induce a ritenere valida l'una interpretazione: idee del
filosofo veritiere; ma la circostanza che il nesso a quel
pensiero filosofico sia considerato «depurato»
da impostazioni «meno attualizzanti e più visionarie»,
e che la sua «funzione grottesca» sia legata
a una «esaltazione del potere liberatorio ed emancipatorio
del sesso» spinge all'altra interpretazione: idee del
filosofo infondate. In lingua italiana la frase è
indecifrabile. Diciamo che grazie ad altri dati scegliamo
l'interpretazione più probabile, la prima.
Ma se Marcuse è implicato nel testo, l'implicazione
è ben più ampia del semplice riferimento "in
funzione grottesca" al tema dell'eros. Ne La dimensione
estetica, il filosofo indicava altresì nell'arte,
e specificamente nella letteratura, una forza di liberazione
dalla "realtà costituita" (come gli istinti
di vita, l'Eros, in lotta contro l'oppressione), fonte di
una "controcoscienza" del realismo e del conformismo.
Ebbene, Hoxhvogli sembra mosso da una tale visione rivoltosa.
Perché egli, dall'architettura complessiva del libro,
passando per gli snodi del senso o del dissenno interno
dei brani e per i loro nessi e disnessi, fino alle opzioni
del linguaggio, cerca un modo 'alternativo' di scrivere.
Ovvero egli tenta l'elaborazione di un impianto discorsivo,
al mezzo tra un grado superiore di loquela serrata e uno
inferiore di massima frammentarietà, che ribalti
la tradizionale fruizione dell'oggetto letterario in prosa.
In tale tentativo questo autore sarebbe stato, con o senza
consapevolezza, più che il sospettato emulatore di
Adorno, un discepolo di Marcuse secondo le di lui prescrizioni:
contenuti 'irreali' non in quanto irrealistici ma perché
'amplificati' rispetto alla realtà, e forma (la tecnica,
per il filosofo) che si oppone alla realtà costituita
nel suo patrimonio tecnico-formale (in questo caso del genere
e del sottogenere).
Come ho detto, ritengo che il tentativo non sia riuscito.
Marcuse stesso avvertiva:
«Vi è nell'arte un tipo di autonomia astratta,
illusoria: è l'invenzione arbitraria e privata
di qualcosa di nuovo, la tecnica che rimane estranea al
contenuto, o la tecnica senza contenuto, la forma senza
materia. Una siffatta autonomia priva l'arte della propria
concretezza che è debitrice alla realtà
costituita, anche là dove essa la nega.»
Ho riportato questo stralcio da Marcuse perché 'aleggerà'
(come dice Caporossi) su quanto dirò appresso, nel
senso che la questione suona così: è questo
libro un vero testo letterario, cioè compiuto oltre
che nelle idee progettuali soprattutto nello sviluppo interno?
Entriamo allora all'interno dell'edificio e vediamo il contenuto
introduttivo, l'alterità dello 'straniero'. Su questo
tema la Caporossi scrive:
«Hoxhvogli, albanese, italiano e italo-albanese
che ha adottato l'Italia a suo regime di vita quotidiano,
descrive la condizione alienata, straniante perché
aliena, aliena perché straniata, dello Straniero
di camusiana memoria. L'autore, attraverso una commistione
geniale dei generi, dalla parabola religiosa alla narrativa
infantile, dal trattato scientifico al manuale d'istruzioni,
dà luogo a un quadro descrittivo dello straniero
drammaticamente contorto in un intreccio di significazione
a rimando circolare: lo straniero è l'autore stesso,
che non è straniero a se stesso, ma all'idea traviata
che l'altro straniero da sé, identico a sé,
ha di sé.»
Un altro bah! Intanto sostengo che Lo straniero
di Camus non c'entra niente con quello di Hoxhvogli. Il
secondo è figura di vittima, respinta eppure avvolta
da un mondo assurdo. Il personaggio «di camusiana
memoria» invece rappresenta, come noto, una problematica
esistenzialista; è l'uomo in sé, 'straniero'
nel senso della totale estraneità al mondo, alla
vita e a se stesso. Comunque, non vedo nessun «intreccio
di significazione a rimando circolare», ma vani giochetti
verbali che cercano, anche qui, l'efficacia retorica.
È il tema dell'alterità, allorché sussistono
due soggetti reciprocamente diversi l'un l'altro con tutta
ovvietà. Nel concetto e nel sentimento dell'alterità
non c'è in campo nessuna «idea traviata»,
anzi è fuorviante insinuare che un uomo sia e debba
sentirsi «identico» a un altro. L'alterità
percepita come 'questione' non riguarda né l'immigrato,
né l'insofferenza della civiltà post-moderna
verso l'immigrato. Non mi si fraintenda: so che gli odierni
fenomeni di migrazione e di terrorismo razziale o religioso
sono drammatici e derivanti da una serie di problemi difficilissimi
da affrontare. Ma il libro che ho in mano pone la questione
in altri termini, da ricondurre a quella più generale
del rapporto fra l'io e l'altro - e fra il noi e gli altri
- che si attiva nel rapporto fra qualunque io - o noi -
e qualunque diversità (di etnia, razza, sesso, abilità
cognitiva o fisica, religione, lingua e nazionalità,
eccetera).
Il tema (chi è colto dovrebbe saperlo) è antichissimo:
la correlazione fra identità e diversità esisteva
filosoficamente già in Eraclito, per il quale l'identità
delle cose consisteva nell'essere diverse dalle altre; culturalmente
la nozione di 'bárbaros' (colui che non parlava greco)
è assunta da Erodoto per nominare lo straniero (persiano)
ma solo in modo identitario della grecità. Oggi dovrebbe
essere superfluo ricordare quanto sia nota dalle scienze
psicologiche la fondamentale importanza di distinguere fra
sé e l'altro per il riconoscimento della propria
identità.
Hoxhvogli a pag. 29 fa dire a un «intellettuale dissidente
malvisto»:
All'origine vi è l'umanità, all'interno
della quale avviene la discriminazione. Stabilite le discriminanti
si separano le parti. Dalla separazione nasce l'intolleranza:
non si vuole il contatto con l'altra parte. Una possibile
conseguenza della dichiarazione di differenza è
l'interpretazione della differenza come negativa. Dalla
differenza alla difformità, dalla difformità
al contrasto, dal contrasto al conflitto, dal conflitto
alla violenza.
Tuttavia il postulato dell'unità della specie umana
che ha caratteri universali, al di sopra delle diversità,
non può eliminare né la centralità
dell'individuo né il patrimonio della varietà
delle culture; non deve eludere le differenze, altrimenti
si perviene all'in-differenza subdola dell'etnocentrismo.
Su questo tema antichissimo e di natura psichica, la funzione
della letteratura e di ogni espressione umanistica dovrebbe
essere non di acuirne la complessità quando si presenta
come nodo critico di trasformazione socio-culturale, bensì
di attenuare i pregiudizi e di promuovere la simpatia per
la diversità dell'altro. Penso per esempio ai romanzi
medievali francesi del ciclo arturiano, che trattano storie
e personaggi di Bretagna; penso all'intreccio shakespeariano
fra l'amore per il diverso in Desdemona, la nobiltà
passionale del Moro di Venezia e la centrale criminalità
di Iago che strumentalizza la loro alterità; penso
al relativismo di Montaigne, che voleva stemperare l'attrito
delle differenze perfino rispetto ai popoli antropofagi;
penso agli esotismi della pittura di Ingres.
Dalle riflessioni di Montaigne al pensiero contemporaneo
la discussione sull'alterità verte non all'impossibile
e spesso iniqua operazione di tollere - togliere,
eliminare, sopprimere - le diversità ma a tolerare
- portare, sopportare, sostenere - tutti le identità
altrui ai fini della 'con-vivenza' dei diversi. Questo è
lo stadio epocale dell'integrazione, di cui bisogna capire
e accettare il significato. Perciò il capitolo dell'io
e dell'altro doveva essere affrontato in modo più
serio e meno frettoloso di com'è proposto nel libro
di Hoxhvogli, che attinge alla sola sollecitazione patetica,
come qui:
A me forestiero arrivano in dono da questa città
solitudine e ferocia. [
] Essere considerati diversi
è una violenza: atmosfere vengono scheggiate, seguono
allontanamenti corporei. Il silenzio assordante dell'indifferenza
o il fragore schiamazzante e umiliante della percossa
fisica: entrambe le possibilità non mi sono state
risparmiate. [pag. 30]
Devo insistere sullo stesso contenuto e si capirà
perché. D'altra parte la prefazione raccomanda: Introduzione
al mondo «va letto, riletto e meditato molte volte
per cogliere la molteplicità di piani semiotici di
cui è dotato.» Rileggiamo dunque più
volte attentamente, e prego anche il mio lettore di attenzione
per vedere cosa accade.
Abbiamo detto che il libro si apre con la presenza di uno
straniero e poco dopo è posta la questione dell'alterità.
Ora, l'alterità è speculare fra l'io e l'altro,
e questo è argomentato anche nei tre frammenti da
pag. 26 a pag. 28, che si concludono così: «Ognuno
crede di avere ragione. È colpa di Dio, ha cambiato
a tutti lingua dando una lingua a testa». Ebbene, nel
significato specifico della specularità io-altro
quei frammenti sono talmente ovvi che, non potendo essere
presi per pedanteria, evidentemente stanno lì per
un solo motivo possibile, cioè per dire che il parlante
del testo - narratore se fosse narrativa - è
superiore ai due membri in gioco nel conflitto dell'alterità
(infatti il problema è la "lingua" a testa).
Ovvero si chiede di seguire il punto di vista di un parlante
del testo 'super-partes', perciò simile all'onnisciente
della narrativa e quindi esterno, che per brevità
chiamiamo 'voce-guida'. Ma se assecondiamo la richiesta,
subito rimaniamo spiazzati: nei brani da pag. 30 a pag.
33, scritti alla prima persona singolare, la voce-guida
appartiene allo straniero. Non solo, altri successivi brani
o fanno appartenere la voce-guida a ulteriori presenze interne
umane e non umane, o sembrano della stessa voce-guida che
però si pronuncia dall'interno.
Porto esempi. Rintraccio verbi e pronomi di prima persona
contenuti in parti di testo che non siano presentate graficamente
o da altre frasi del testo come discorsi diretti o indiretti
di personaggi. A pag. 51 l'aviatore Martin compie una fuga
ideale «verso una stella in cui non montano altoparlanti»,
quindi inferiamo che si tratta di una personificazione dello
straniero. A pag. 55 lo scrittore di un «romanzo di
successo» critica la comunicazione letteraria, quindi
la voce-guida si presta all'autore del testo per un inserto
metaletterario. A pag. 59 la riflessione sulla vita, sulla
morte e sul nulla non può svolgerla un cittadino
della "città dell'allegria", poiché
(si vedrà fra poco) chi soffre di "eccesso d'anima"
viene narcotizzato, perciò è svolta dalla
voce-guida che si pone come 'io'. A pag. 64 la voce-guida
prende la parola come 'io' in un monologo che evoca condizioni
esistenziali dello straniero: «A lei volgo lo sguardo
dall'anfratto in cui mi hai buttato [
] sto rovinando
la festa che è in te, dovrei tenermi lontano dall'allegria».
A pag. 65 alcuni temi verbali e frasi riconducono a semantiche
dello straniero: "rettitudine e cortesia", "educazione
e serietà", "insidia", "metal
detector". A pag. 66 il frammento è pervaso
dal tema dello straniero. A pag. 88 il cavallo si ribella
alle regole dell'andatura al passo, al trotto e al galoppo,
cioè, si può inferire ancora, alle regole
della "città dell'allegria", quindi è
una proiezione immaginaria dello straniero. A pag. 89 un
oggetto replica le argomentazioni dell'alterità,
nella fattispecie del rapporto fra soggettività e
realtà, che è tema da far risalire alla presenza
dello straniero.
Può bastare, e qualcosa non torna. Altro che la «molteplicità
di piani semiotici» spiegata in prefazione; qui intanto
c'è stato un problema di 'visione semiotica' dell'opera
in produzione e mi sembra il punto giusto per chiarirlo.
Non esiste un sufficiente intertesto per un libro
come Introduzione al mondo, secondo la novità
o diversità di genere cui vuol essere inserito. L'autore
quindi, progettandolo, sapeva che il lettore non avrebbe
avuto regole e presupposti noti da cui partire per esercitare
la sua attività deduttiva e interpretativa. Ma nello
sviluppo Hoxhvogli ha trascurato del tutto questa circostanza;
non ha voluto condividere nessun aspetto implicito della
tradizione letteraria in prosa. Il richiamo intertestuale
minimo e utile da offrire, per consentire ipotesi di senso
coordinate tra i frammenti, sarebbe stato la funzione del
narratore nel genere narrativo, con la quale chiunque ha
familiarità. Si è vista invece la confusione
a cui è sottoposta la voce-guida, che sembrava chiesta
come referente discorsivo assoluto e poi troviamo dislocata
con modalità a piacimento. Orbene, ciò si
rivela confusione dell'autore, scrittura incontrollata.
Come avvertiva Marcuse nello stralcio di cui prima, in tal
modo l'opera diventa un'invenzione «arbitraria e privata»,
disancorata dalla funzione della letteratura.
Ma al di là del chiarimento, concludiamo sulle voci.
Per giungere alla loro identificazione, nei casi rilevati
abbiamo cercato l'isotopia di un tema, ipotizzando
luoghi di corrispondenza fra la voce-guida e lo straniero.
La corrispondenza è confermata al frammento delle
pagg. 30-31 già menzionato, ove lo straniero parla
sotto il titolo Piccola autobiografia (i titoli spesso
non sono metasegni esplicativi, per cui era necessario verificare
l'isotopia). La voce-guida è dunque lo straniero,
e per giunta si rivela voce dell'autore.
Resta un'ultima domanda. È lo straniero metonimia
dell'estraneità alla "città dell'allegria"
da parte di chiunque ne soffra e ne rifiuti le brutture
e i paradossi? No, perché fin da pag. 22 risulta
che: «È giunta l'assuefazione, tanta che l'"Allegria"
lo sentono soltanto i forestieri in un fragore confuso.»
Ecco allora cosa c'è da capire: l'inanità,
l'inconsistenza di senso, sia della messa in scena di uno
straniero sia del susseguente discorso sull'alterità.
Questa voce pretende di pronunciarsi come osservatore obbiettivo
in quanto straniero, poi istruisce su stranieri e alterità,
infine nel controsenso si estromette da un 'noi' per parlare
degli 'altri', e nella foga di dire si perde e perde le
redini del discorso.
Lo mostro. Per osservare criticamente e in modo realistico
la "città dell'allegria" si sarebbe potuto
scegliere un 'cittadino' della stessa città. Realisticamente
parlando, di gente comune che reclama verità, moralità,
pacatezza, ce n'è tanta. Ma soprattutto, testualmente
parlando, tra i cittadini vi sarebbe almeno Leo che soffre
di "allegrite":
Signor sindaco, la prego cortesemente di far rimuovere
l'altoparlante della via in cui abito. [
] Da tempo
sono tra vita e morte poiché colpito da allegrite,
pericolosissimo morbo che percuote pochi sfortunati. L'allegrite
mi rende impossibile vivere l'allegria. Da anni sono privo
di una gradevole disposizione. [pag. 36]
Intanto: com'è possibile, se «l'"Allegria"
lo sentono soltanto i forestieri»? Ma andiamo oltre.
Egli è affetto, dice il dottor Canarini, da "eccesso
d'anima", e la soluzione è prendere il narcotico
di Introduzione al mondo:
Questo è il responso di Canarini: «Lei
soffre di eccesso d'anima. Non si preoccupi. Possiamo
eliminare i sintomi e bloccare la malattia. Le prescrivo
un farmaco che le permetterà di trascorrere una
vita normale, senza controindicazioni. Prenda questa scatola
di Introduzione al mondo: una compressa la mattina e una
la sera [
] Le parole del medico lo rasserenano.
Prende una pastiglia, non sente più nulla. Non
sentire più nulla, questa è l'Introduzione
al mondo. [pag. 39]
Così Leo viene zittito. È superfluo domandarsi
perché lo straniero non ha preso il narcotico e può
criticare, mentre nello stesso tempo produce compresse di
narcotici per gli altri. Non c'è risposta. Questo
straniero ha combinato un pasticcio.
Qui giunti, il resto è semplice da commentare e
si può essere sommari. Hoxhvogli vorrebbe spiegarci
da un punto d'osservazione separato da noi com'è
orribile la nostra civiltà (non la sua). Così
i suoi frammenti erogano a piene mani ritagli di stoltezza,
violenza, immoralità, incomunicabilità, isolamento,
uniformazione, nevrosi, drammaticità, malinconicità.
Di tutto questo abbiamo letto e si discute già da
molto tempo. In ambito letterario, dal realismo ottocentesco
fino alla data di ieri, tantissimi scrittori, narratori,
drammaturghi e poeti, hanno rappresentato problematiche
sociali e psicologiche, denunciato conflitti, analizzato
mali e ingiustizie delle epoche che si sono susseguite,
offrendo un panorama appassionante di storie individuali
e collettive. Ora, anche considerando che nella quasi perennità
dei temi la letteratura si rinnova negli autori, io non
trovo nel lavoro di Hoxhvogli sfumature, visuali, suggestioni
rinnovate di questi contenuti.
Diversamente dalla prefatrice, che con l'Introduzione
al mondo gode la «più straniante delle
fruizioni», io avverto l'effetto opposto allo straniamento:
il procedimento è così insistentemente deformante
o distruttivo di ogni 'oggetto', tanto da 'banalizzare'
(rendere ininfluente) nella reiterazione la 'alterazione'
dell'oggetto volta a volta messo in campo. Ben prima della
metà del testo l'alterazione diventa così
abituale e attesa da non rendere nessuna «sottrazione
dell'oggetto all'automatismo della percezione» - lo
straniamento enunciato da klovskij -, la cui percezione
dunque non è più 'insolita' - Verga - né
'distante' - Brecht.
La dilatazione del reale appare piuttosto uno sfogo allucinato,
vana protesta rancorosa e lamentosa, inutile ingiuria al
dominio che ci possiede, ingiuria impotente, senza speranza,
quella speranza che nella dedica e nell'intervista d'appendice
l'autore vorrebbe indurre nei lettori e che nel libro contraddittoriamente
cancella così:
Crepa il ventre del ragazzo, e la mia speranza di
vederlo fuggire. Dove tutti sentivano "Allegria",
dall'alto vedo rottami di carne incenerita tra muri rotti
e anneriti. [pag. 51]
Peccato, perché Hoxhvogli saprebbe scrivere. La
sua prosa sarebbe corretta e chiara, colorita e scorrevole.
Mantenendo una facile leggibilità, egli possiederebbe
una certa fecondità verbale e la capacità
di intrecciare figurazione e senso. Questa abilità
scrittoria affiancherebbe il gusto del paradosso, l'ironia
e, quando l'autore volesse, potrebbe anche prestarsi al
coinvolgimento 'affettivo', come avviene in alcuni rarissimi
passaggi, i migliori del testo, non per piacere di sentimentalismo
ma di poeticità, come questo che parla della bambina
Allegra, vittima del mondo:
«Qual è la tua canzone preferita?».
«Viiaa, viiaa, viiaa», risponde Allegra cantando
lungamente e versandosi in una trasognata realtà.
[pag. 108]
Purtroppo le doti notate qua e là sono state sprecate
stringendo la fantasia nel troppo concettismo e nell'esacerbato
agone satirico. La semplificazione sintattica e la frangitura
del discorso in frammenti brevi o brevissimi, spesso calcate,
l'esibizione delle paronomasie e una vera invadenza del
tempo indicativo presente diventano man mano un martellamento
stancante, un piovere ininterrotto della medesima sostanza
linguistica, che non ha il sapore della forma plastica e
viva della lingua. Il risultato è un'ossessiva predica
che, a proposito del processo di accumulo delle impressioni
nella scrittura per frammenti, al contrario riduce pagina
dopo pagina la sopportabilità del libro.
La sommatoria di tutto ciò che ho detto è
che Idolo Hoxhvogli offende un po' le nostre sensibilità,
anche se probabilmente le sue intenzioni erano meno offensive
della rampante presunzione di Sonia Caporossi.
Luigi Arista (marzo 2016)
Il libro
Idolo Hoxhvogli, Introduzione al mondo, OXP, Napoli
2015.
L'autore si presenta
Idolo Hoxhvogli è nato a Tirana nel 1984. È
laureato in Filosofia alla Cattolica di Milano. Suoi scritti
sono presenti in numerose riviste italiane e straniere,
tra cui «Gradiva International Journal of Italian
Poetry» (State University of New York at Stony Brook)
e «Cuadernos de Filología Italiana» (Universidad
Complutense de Madrid). Ha collaborato con 24 Letture del
Sole 24 Ore, Quasi Rete della Gazzetta dello Sport e Il
Fatto Quotidiano Online.
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