di Luigi Arista
La questione di come si legge un testo letterario mi ha
sempre suscitato molto interesse. Per dirla meglio, ho sempre
pensato che la lettura fosse una 'questione', un nodo problematico
da sciogliere, non l'unico né, forse, il più
importante, però senz'altro uno di quelli che hanno
contribuito al declino della letteratura, in una sorta di
sua abdicazione al ruolo autorevole che possedeva un tempo.
Al riguardo mi formai abbastanza presto delle idee, che
via via negli anni, tassello dopo tassello come conducendo
un'indagine privata, confrontai con la storia dell'oggetto
del problema. Oggi propongo le conclusioni a cui ero giunto,
riassumendo il mosaico dei tasselli raccolti. E poiché
si tratta di una ricostruzione che mette in causa il rapporto
fra raziocinio ed emotività, nelle Note in calce
aggiungo una brevissima escursione fuori dal letterario,
affinché il mio pensiero non paventi troppi debiti
di scarsa informazione su quanto dicono di quel rapporto
le discipline competenti, dall'antropologia alle neuroscienze.
Comincio da una constatazione che non sfugge a nessuno.
Nel modo più comune di leggere poesia, a mente o
ad alta voce, si tende a ridare al testo scritto in versi
l'andamento di una prosa. Non viene cioè osservato
alcun rispetto dei ritorni a capo, dei ciclici silenzi di
suono e di significato - le pause - che si dovrebbero porre
fra verso e verso. Questa strategia fa perdere tutte le
eventuali aggiunzioni di armonia sonora o evocazione o impressione
o senso sottese alle sospensioni di ogni fine verso, ma
a chi la adotta serve per ripristinare quanto più
possibile la fraseologia di un discorso razionalmente organizzato.
Un ostacolo alla percezione di quelle aggiunzioni, e perciò
alla partecipazione completa della poesia sta, dunque, nella
mentalità fortemente razionalista del nostro tempo.
Ma per completare una visione dei problemi della lettura,
tanto della poesia quanto della prosa, è necessario
puntualizzare un concorso di causa, in apparente contraddizione
col primo, costituito dall'altrettanto esuberante emozionalismo
sempre del nostro tempo.
Noi siamo razionalisti da un lato ed emozionalisti dall'altro,
cioè la nostra natura interiore è bipolare
e secondo le conoscenze della tradizione occidentale siamo
sempre stati così. Inoltre a me sembra che l'uomo
di oggi viva una accentuata dicotomia fra i due aspetti
di questa sua natura. Ma nel porsi quali cause di un modo
di leggere che io giudico improprio, tali due aspetti non
si contrappongono, anzi sono complementari; nell'atteggiamento
comune verso l'arte letteraria - e si può dire anche
verso tutta l'arte - una è conseguenza dell'altra.
Infatti, il coinvolgimento emotivo lo si fa dipendere (lo
si fa, ma si potrebbe altrimenti) dalla comprensione di
un contenuto esplicito razionale, comprensione che quindi
avviene puntando l'attenzione al solo livello logico di
un'opera, ovvero ai suoi riferimenti 'univoci' a fatti,
condizioni, situazioni, caratteri, ambienti. Se invece l'opera
ha un significato che sta nell'insieme o nelle pieghe del
discorso e il suo linguaggio è 'plurivoco' - secondo
la definizione attribuita al testo espressivo da Della Volpe
1960, il contenuto nel quale ci si desidera coinvolgere
sfugge. Quindi il problema è, riepilogando, che si
va sempre inseguendo con la logica un contenuto da cui lasciarsi
emozionare.
Sembra che un tempo l'intreccio delle tendenze si svolgesse
diversamente, o che almeno fossero diversi l'auspicio dei
teorici e l'intento dei grandi autori. All'interno della
stessa letteratura vi è un esempio che considero
emblematico, famosissimo per molti motivi ma non per quello
che ora interessa me, e sceverato in tutti i suoi possibili
ritagli di significato: l'incontro di Dante con Paolo e
Francesca nel V dell'Inferno. Lì, su richiesta
del poeta, la donna spiega che uno dei più noti romanzi
(o poemi) dell'epoca, nel punto in cui narra che Ginevra
e Lancillotto si baciano, induce Paolo "tutto tremante"
a baciare lei, e in quel momento i due lettori precipitano
nella passione non più controllata dalla ragione.
Eppure Francesca garantisce: «noi leggiavamo un giorno
per diletto», senza altre intenzioni recondite, e
«sanza alcun sospetto» delle conseguenze a cui
la lettura avrebbe condotto se stessa e il cognato. E la
dignità che Dante conferisce al personaggio è
garanzia per noi della sua sincerità. Secondo alcuni
interpreti l'assenza di ogni sospetto può essere
riferita, semplicisticamente, all'insospettabilità
presso le terze persone e Gianciotto. Ma il previo "soli
eravamo" non indica la circostanza agevole, casuale
o cercata, per cui potesse accadere il fatto, bensì
sta già a dire la normalità di trovarsi da
soli; diversamente Dante non accorderebbe attendibilità
alla donna e il senso dell'intero episodio sarebbe indecifrabile.
Quindi l'insospettabilità va attribuita esclusivamente
allo stato d'animo dei due personaggi. E a parer mio è
certo che, quali persone colte e perciò sapendo trattarsi
di un libro d'amor cortese, con il senso implicito e le
possibili trame da attendersi da esso, leggerlo insieme
costituiva per entrambi un innocente intrattenimento culturale.
Di conseguenza il "diletto" era leggere per il
'puro gusto della lettura', e non avere "alcun sospetto"
significò sia non sentire predisposizioni latenti
sia, pertanto, non immaginare di ritrovarsi poi avvinti
dalla 'forza della letteratura'. Il dialogo fra Dante e
Francesca si rivela perciò, fra la molta materia
che coinvolge, oltre che un acuto pentimento del proprio
giovanile 'errore' cortese - ma errore per la materia trattata,
non stilistico, giacché la Comedìa
supera e condensa tutti gli stili precedenti -, una sottintesa
visione del poeta di come la buona scrittura dovesse rivolgersi
a intelletto ed emozione insieme e la giusta lettura dovesse
assecondarne gli 'effetti totali' - tanto che Francesca
dice: «solo un punto fu quel che ci vinse» -,
senza subordinare il raziocinio al desiderio di emozionarsi
(come invece farebbero «i peccator carnali / che la
ragion sommettono al talento»).
Passando invece a lasciti teorici, ancora durante il '500
si poteva cogliere nella sensibilità letteraria l'attenzione
alla "elocuzione" che fosse armonizzata al "concetto".
Nei Discorsi dell'arte poetica il Tasso scriveva
(III): «Che lo stile non nasca dal concetto, ma da
le voci, affermò Dante [...]. Incontro, i concetti,
sono il fine, e per conseguenza la forma de le parole e
de le voci. Ma la forma non deve essere ordinata in grazia
de la materia, né pendere da quella; anzi, tutto
il contrario: adunque i concetti non devono pendere da le
parole; anzi, tutto il contrario è vero, che le parole
devono pendere da' concetti, e prender legge da quelli.
[...] È opinione de' buoni rètori antichi,
che subito che il concetto nasce, nasce con esso lui una
sua proprietà naturale di parole e di numeri, con
la quale dovesse essere vestito; il che se è cosí,
come potrà mai essere che quel concetto vestito d'altra
forma possa convenientemente apparere? [...] Ché,
per dirla, la qualità de le parole può bene
accrescere e diminuire l'apparenza del concetto, ma non
affatto mutarla: ché da due cose nasce ogni carattere
di dire; cioè da' concetti e da l'elocuzione (per
lasciare ora fuori il numero); e non è dubio che
maggiore non sia la virtú de' concetti, come di quelli
da cui nasce la forma del dire, che de l'elocuzione.»
In tal modo egli esprimeva la cura dell'unità estetica
che doveva appartenere allo scrittore e di cui poteva fruire
il lettore.
Credo invece si possa dire e verificare nelle tappe della
storia che la situazione attuale si sia prodotta, dopo l'ultima
età indicata, sotto l'influenza della cultura borghese.
Ma aggiungo in anticipo che a mio modo di vedere il cambiamento
avvenuto ha solo spostato i termini del problema, peggiorando
in vera e propria scissione una bipolarità che in
qualche modo ha sempre minacciato la lettura, e che invece
dovrebbe essere saldata. E così vengo alla mia ricostruzione.
La questione del coinvolgimento emotivo fa pensare alla
storia dell'arte drammatica e alla discussione intorno ai
suoi valori, ai suoi scopi e ai suoi effetti sullo spettatore,
a partire da quel grande quesito filologico che fu la nascita
della tragedia e dal concetto aristotelico della catarsi.
È inevitabile pensarci anche perché, fino
a buona parte dell'età moderna, i generi letterari
veicolati dal teatro costituirono più di altri quelli
destinati al vasto pubblico. In un discorso sui gusti e
sugli atteggiamenti comuni nei confronti della letteratura
appare perciò finanche un obbligo cominciare da lì.
E dunque, il precetto che Aristotele detta insistentemente
nella Poetica è che la tragedia deve emozionare
di "pietà e paura" (brani sparsi). Egli
però ha preventivamente messo in relazione l'arte
letteraria al piacere intellettuale: «dalle imitazioni
tutti ricavano piacere [
] imparare è un grandissimo
piacere non solo per i filosofi ma anche per tutti gli altri,
tranne che ne partecipano in minor misura» (1448b
5-15). Poi, «ricavando dalle premesse precedenti la
definizione della sua sostanza» sancisce che «tragedia
è imitazione di un'azione seria e compiuta [...]
che attraverso la pietà e la paura produce la purificazione
di questi sentimenti» (Poetica, 1449b), cioè
la kátharsis. Dunque cosa riguarda e qual
è la prospettiva catartica? Il filosofo su questo
punto dice troppo poco per chiarire, e anzi fa scaturire
gli interrogativi. Agli approfondimenti, sia delle motivazioni
intrinseche della tragedia, sia dell'ermetico cenno aristotelico,
hanno partecipato non solo gli storici e i teorici di drammaturgia
e di letteratura ma anche i filosofi e gli psicoanalisti,
e non è certo per far torto a tanto qualificato pensiero,
tuttavia, che ora ci si limiterà ad annotare solo
qualche punto essenziale.
La forma classica del dramma (drâma: azione)
era una rappresentazione di azioni, e aristotelicamente
una mìmesis (imitazione verosimile) dell'agire
di personaggi e non la narrazione di vicende, che lo stesso
Aristotele ammetteva invece nell'epica. Nel dramma tragico
in particolare, superiore a quello satirico (o commedia)
per funzione sociale e spessore dell'arte, i personaggi
in gioco erano mitici e d'alto rango, dèi, re, principi
ed eroi, all'epoca tutti profondamente significativi nella
simbologia degli affetti umani e delle relazioni umane col
trascendente. Possiamo quindi pur credere che assistere
a quella mimesi, corredata di potenti fattori spettacolari
(le maschere, il coro, la danza, gli assetti studiati degli
spazi teatrali e le posizioni degli attori), effettivamente
procurasse il coinvolgimento emotivo.
Perché nel trattato aristotelico contemplare solo
pietà e paura può essere motivato con la maggiore
nobiltà attribuita a quelle rispetto alle emozioni
di altre forme drammatiche e letterarie. Comunque il significato
di kátharsis è stato dedotto dagli
scritti dei Sofisti come illuminazione, chiarificazione,
purificazione delle passioni, e dunque l'idea prevalente
sul senso e sull'effetto del dramma tragico è sempre
stata che da questo, quale rituale artistico, si sviluppasse
un fenomeno che contestualizzava in un processo migliorativo
della coscienza i suoi distinti aspetti, la partecipazione
emotiva e lo scioglimento razionale degli impulsi passionali.
Si è cercato di stabilire (da parte dei pensatori
antichi e moderni dei quali dicevo) se tutto ciò
avvenisse grazie all'acme delle emozioni stesse, per un
loro naturale ritiro nella vigile consapevolezza dopo lo
sfogo, oppure in virtù delle forme letterarie, scenografiche
e coreografiche, che in ogni fenomeno artistico farebbero
compiere il magico passaggio dall'emozione alla calma contemplativa,
oppure perché le passioni erano esternalizzate sulla
scena teatrale e non vissute in proprio, permettendo così
il distacco cosciente da esse, oppure, ancora, grazie alla
proiezione esterna delle generali tensioni esistenziali,
che recupererebbe l'equilibrio psichico e perciò
le funzioni razionali.
Da molto tempo non si scrivono e non si rappresentano più
tragedie, ma finché furono in auge (o se lo fossero
ancora), al di là dei motivi induttori della cosiddetta
catarsi, l'unica cosa evidente mi pare questa: essa era
(o sarebbe) uno stato interiore in cui si esauriva (esaurisce)
l'antagonismo emotivo alla razionalità.
Platone era stato agli antipodi di Aristotele e peraltro
aveva assunto due atteggiamenti diversi. Da un lato (Repubblica)
egli censurava le "favole false" dei poeti perché
non educavano ai modelli sociali di uno Stato ideale, dall'altro
(Jone) considerava la poesia un "sacro furore"
e il poeta un essere apparentato al divino la cui ispirazione
"infiamma" i destinatari. I concetti di Platone
si riproposero ancora in età classica nella nozione
del 'sublime', in un trattato anonimo del I secolo d.C.,
che pone i grandi autori al di sopra delle esistenze comuni,
poiché l'arte è, appunto, sub limen
e travolge l'ascoltatore conducendolo all'esaltazione. Ma
com'è noto furono il magistero aristotelico e quelli
di Cicerone e Orazio a costituire i riferimenti fondamentali
delle elaborazioni ideali, delle precettistiche scrittorie
e del pensiero sui fini ricettivi della retorica e della
poetica nel mondo antico. Per lo specifico dell'arte letteraria
la summa degli insegnamenti può essere questa: l'ars
(stile) e l'inventio (argomento) devono essere in
stretto rapporto, secondo tre funzioni che la letteratura
deve svolgere presso l'ascoltatore o il lettore: il docere
(pedagogica morale o filosofica), il delectare (ludica)
e il movere (emotiva). La definizione dei 'generi',
anch'essi quasi tutti fondati in epoca greco-latina, non
serve soltanto a catalogare le opere in un tipo o in un
altro ma rappresenta il 'dover essere' secondo cui esse
vengono misurate.
Io non sono un partigiano della razionalità nei
fatti d'arte, com'è dimostrato anche da questo saggetto,
ciononostante qui mi sembra importante formulare un'opinione
in suo favore. Non stupisce che la riflessione, diciamo
pure la teoria letteraria posteriore, in specie rinascimentale,
si sia rivolta soprattutto all'aristotelismo giovato del
contributo oraziano. Il platonismo e il suo portato sul
sublime implicano una totale inermità del destinatario
davanti al rapimento del 'furor poetico', la qual cosa risulta
inaccettabile all'uomo volto verso la conoscenza. Mentre
Aristotele, con le sue idee normative e giudicanti, pone
la poetica tra i fenomeni umani sui quali si può
operare, e Orazio, dal canto suo, dimostra l'attività
pensante del poeta, dimostra che l'artifex può
ragionare sul quel che produce.
Fin qui, è tutto quel che conta dire per l'economia
della ricerca, perché prima degli incunaboli del
romanticismo la drammaturgia non conosce dei significativi
mutamenti rispetto al classicismo, salvo l'usanza medievale
del 'dramma liturgico' quale forma di teatro popolare. Né
tutto il resto della letteratura, nella cultura feudale
estremamente statica, produce nulla di nuovo, salvo anche
in questo caso aprire la semplice area tematica religiosa.
E quel che accade dal basso Medioevo al Rinascimento lo
sanno tutti. Piuttosto occorre parlare delle trasformazioni
che, dal XVII secolo in poi, accompagnano la progressiva
presa di coscienza e l'ascesa culturale della classe borghese.
Come si sa da altre storie dell'arte, delle letterature
e delle concezioni estetiche, tali trasformazioni manifestano
oscillazioni di tendenze fra le eredità del classicismo
e le istanze di modernità rivolte alle esigenze e
al vissuto delle nuove classi sociali. Anzi è bene
precisare che i mutamenti sono molto graduali e compositi,
come avviene sempre fra un passato e un futuro, e spesso
comportano nello stesso momento atteggiamenti contrari a
quelli prevalenti. Ma per spiegare è necessario fissare
perimetri di tempo e di categorie, purché non siano
del tutto arbitrari e tocchino in modo congruo i termini
del discorso che si conduce. Per cui, lo scenario che si
sta trattando può essere ulteriormente riassunto
così.
Il '600, già considerato epoca decadente e del cattivo
gusto, fu in realtà carico di una complessiva 'rimeditazione'
e di spunti verso il moderno. Nella lirica, dopo la stretta
normazione cinquecentesca, in Italia, Spagna, Francia, Inghilterra,
con la poetica dell'artificio e della meraviglia si rivalutano
l'importanza del lettore e il potere persuasivo della parola.
In campo narrativo è invece da segnalare la duplice
svolta compiuta da M.me Marie de La Fayette, che creò
il 'romanzo breve', la misura intermedia fra romanzo classico
e novella che avrà fortuna molto tempo dopo, e introdusse
il 'dialogo interiore' del personaggio, elemento archetipico
di psicologia che pure sostanzierà tanta narrativa
futura. Ma soprattutto in Francia si evidenzia anche una
situazione sociale che ha nella comunicazione pubblica il
suo momento vitale, e fra tutte le attività intellettuali
e artistiche tale comunicazione avviene, ancora, nel teatro.
Verso fine Seicento due forme drammatiche principali caratterizzano
il teatro europeo: la tragedia classica con le sue tematiche
mitologiche ed eroiche, prediletta dalla nobiltà,
e la commedia dell'arte, che degenerava spesso in comicità
facile e volgare ma otteneva grande successo presso il ceto
basso perché ne ritraeva la vita e i costumi. Poi,
all'inizio del '700, la borghesia si rafforza nel potere
politico ed economico e comincia a far sentire il suo peso
culturale. Da essa emergeranno i nuovi ranghi intellettuali,
che formuleranno il razionalismo illuminista e un'arte teatrale
e letteraria realista, naturalista e animata da temi sociali.
E tutto il secolo arcadico e illuminista, neoclassico e
preromantico, durante il quale vengono gettati i presupposti
dei grandi cambiamenti successivi, è quello che avvicina
maggiormente il teatro alla letteratura.
Dapprima si inserisce un terzo genere di dramma, la 'commedia
lacrimosa', nato in Francia e dal quale Diderot prese le
mosse per porre i fondamenti teorici del 'dramma serio',
sia come veicolo di protesta politica (contro il classicismo
tragico, perciò contro la nobiltà), sia come
richiamo artistico alla verità dei costumi e alla
realtà dei sentimenti. Nel frattempo una corrente
patetica e sentimentale aveva investito anche il dramma
e la letteratura inglesi, mentre in Italia si era inaugurata
l'egida del melodramma, sui temi arcadici dell'amore e delle
virtù, e della commedia goldoniana, attenta a rappresentare
pregi e difetti degli uomini comuni. Tra la metà
e la fine del secolo, il vero e proprio 'dramma borghese',
che nasce dal dramma serio, trova la sua più compiuta
definizione e la sua più valida realizzazione in
Germania, grazie soprattutto all'opera teorica e di pratica
teatrale di Lessing.
Fuso con la corrente filantropica dell'illuminismo, il
dramma borghese si fa carico della funzione educativa attribuita
al teatro, la quale consiste principalmente nell'uso della
ragione, come misura per la comprensione della realtà,
e nel promuovere la nobiltà del sentimento, garante
della convivenza sociale. Ovvero, nella finzione teatrale
lo spettatore deve considerare la verità delle situazioni,
che quand'anche non contingenti storicamente sono assolutamente
rappresentative delle realtà umane, e deve vivere
nel sentimento dei personaggi.
Aristotele aveva prescritto: «[...] perché
la tragedia non è imitazione di uomini, ma di azione
e di vita. Non si agisce dunque per imitare i caratteri,
ma si assumono i caratteri in dipendenza delle azioni [
]
Inoltre senza azione non può esservi tragedia, mentre
senza caratteri potrebbe [...]» (Poetica, 1450a).
Come si vede, invece, ora il dramma non è più
una rappresentazione di azioni ma di storie e circostanze
e dei caratteri degli uomini. Inoltre, da mimesi come verosimile
possibile esso verte alla puntuale descrizione della realtà;
i protagonisti non sono più superuomini o particolari
tipi umani ma comuni mortali, e nell'effetto sullo spettatore
si introduce un'inversione rispetto al processo che nella
tragedia si dice portasse dal coinvolgimento emotivo allo
scioglimento razionale o illuminazione.
Una rottura ancora più marcata con il passato avviene
attraverso il romanticismo, anch'esso composto da facce
diverse e specifiche ma ben identificabile come fenomeno
espanso all'intera Europa entro una serie di ispirazioni
e atteggiamenti unificanti. Siamo in clima di lotta fra
la borghesia che ha scalato le vette del potere politico
e la nobiltà che tenta la restaurazione del vecchio
regime. Sul fronte dei manifesti culturali, delle teorie
dell'arte e della fattura letteraria dilagano la valorizzazione
del sentimento, la comprensione della realtà dall'interno
delle circostanze concrete e non sulla base di rigidi inquadramenti
razionalisti, uno stato interiore di instabilità
e inquietudine, una religiosità dell'uomo nel creato,
un senso spiccato di individualismo e la rivalutazione della
Storia.
E qui occorre cominciare a pensare che quanto si dice avvenire
in Europa significa, culturalmente, che già da tempo
idee e formae mentis si espandono verso le aree del
mondo colonizzate e popolate da europei, e annotato questo
torniamo alle vicende europee.
In quel quadro, il teatro è ancora un genere centrale
nelle preoccupazioni di rinnovamento culturale. A parte
i grandi nomi di Goethe e Shiller nel trapasso di secolo
e poi di Byron, Hugo e Dumas, non vi corrisponde un'altrettanta
prolifera e apprezzabile produzione di testi, anzi spesso
scadenti. Ma l'affarismo borghese ne fa ugualmente il più
frequentato intrattenimento alla moda dell'Ottocento, adattando
alle nuove esigenze sceniche i migliori autori del passato
(Shakespeare, Corneille, Molière, Racine) e imitando
il melodramma. E però nel frattempo sta accadendo
qualcosa di saliente, che inciderà radicalmente sul
futuro. Cioè, la stasi letteraria della sceneggiatura
teatrale corrisponde all'ascesa del 'romanzo', che sebbene
non subito con grandi tirature di stampa diventa il nuovo
mezzo di diffusione popolare e rappresenta la trasformazione
romantica del rapporto fra pubblico e letteratura. Ancora
Goethe e Hugo, quindi Stendhal, Balzac, Scott, Pukin,
Gogol', Manzoni, Nievo, non sono che pochi nomi molto noti
per rappresentare tale trasformazione.
Il romanzo ottocentesco possiede tratti simili a quelli
di ciò che ormai è riconosciuto univocamente
come 'il dramma', e in molti casi esemplari ne è
la continuazione libresca, ove si sono inseriti i motivi
romantici: realismo storico, sociale e di situazione, tormento
e desiderio di vita, sentimento, introspezione psicologica.
Ejchenbaum, noto fra i padri dell'analisi strutturalista,
evidenziava così il legame fra teatro e romanzo nel
XIX secolo (Teoria della prosa 1927): «[Dal]
materiale descrittivo dei costumi e della psicologia si
sviluppa il nuovo romanzo dell'ottocento: il romanzo di
Dickens, Balzac, Tolstoj, Dostoevskij. [...] Tipico d'un
tale romanzo è l'ampio uso di descrizioni e caratterizzazioni,
da un lato, e di dialoghi, dall'altro. Questi dialoghi si
svolgono a volte come un semplice colloquio che o caratterizza
mediante il dialogo i personaggi (Tolstoj) o è una
forma dissimulata di narrazione e pertanto non ha in sé
alcunché di 'scenico'; a volte, invece, essi assumono
una forma genuinamente drammatica [...]. Il romanzo in tal
modo rompe ogni legame con la forma narrativa e si trasforma
in una combinazione di dialogo scenico e di ampie didascalie
che servono di commento alla scenografia, ai gesti, all'intonazione
ecc.»
Ed ecco, a questo punto si instaura definitivamente il
nuovo modo comune di leggere. La letteratura prevalentemente
offerta e che incontra il prevalente gusto del lettore,
appunto il romanzo, possiede caratteristiche espressive
corrispondenti al realismo dell'epoca (ogni realismo è
relativo al senso del vero della sua epoca). Essa è
sorretta da un fondo ideologico e utilitaristico, come accade
quasi sempre alle poetiche programmate con fini sociali
e culturali. È ovvero una letteratura, sovente minuziosa
di particolari, concepita per una chiara comprensione delle
trame dei fatti e dei caratteri umani, ambientali e storici,
che faccia immergere e sostare il lettore negli stati interiori.
Nella specie della svolta romantica, anche la lettura del
critico viene intesa come partecipazione agli effetti emotivi
delle opere. Aggettivando seppur tra le parentesi quel che
finalmente si è rintracciato in questo excursus,
Muzzioli 1994 conferma che: «L'immedesimazione e la
commozione (proprio nel senso etimologico del 'muoversi
insieme' a qualcuno) diventano i cardini dell'approccio
al testo. Certo, sui modi della partecipazione i romantici
si interrogano, ed offrono, come vedremo, risposte discordi,
dando talora campo alla facoltà riflessiva, talaltra
(in quella che sarà la versione del romanticismo
deteriore, destinata ad entrare nel senso comune) affidandosi
all'intensità del 'sentimento'.» E dopo il
romanticismo gli studiosi si interrogheranno ancor di più
circa il nodo della partecipazione, ma il lettore comune
non studia e non si interroga, perché la scuola non
lo ha realmente ben educato.
Qui giunto, ricapitolo e tiro le somme. Come dicevo entrando
in tema a mio avviso si può sostenere, considerando
i costumi, l'evoluzione tecnologica, la specializzazione
settoriale delle competenze, la distribuzione dei tempi
e i ritmi di vita, che la separazione nell'uso delle risorse
razionali e di quelle emotive nell'uomo di oggi sia più
accentuata rispetto al passato e all'antichità. Nella
cultura e nell'organizzazione sociale odierne, le applicazioni
quotidiane e la comunicazione esigono un uso predominante
di razionalità, e nei tempi di pausa si è
spinti fortemente verso l'emotività. Ovviamente si
tratta di pause che non rigenerano a un effettivo stato
di benefico equilibrio. Ma così stan le cose, sebbene
vi sia chi segnala il paradosso, e tornando alla nostra
questione si constata che, al di là dell'espressione
letteraria e delle sue qualità intrinseche, al di
là di quel che si è scritto nell'Ottocento
e nel secolo successivo, la lezione generale passata attraverso
il dramma borghese e il romanzo ottocentesco è dunque
una lettura che uniforma al contenuto e alla sua comprensibilità
per coglierne col massimo profitto i risultati emozionali.
Si è trattato di una lezione durata ben più
di un secolo, che ha fatto ottima presa anche sul lettore
del Novecento e sulle idee di molti scrittori - e perciò
oggi la lezione, o induzione, ha superato la durata di due
secoli, nonostante i pronunciamenti di valenti artisti e
teorici e nonostante i rivolgimenti avvenuti nella stessa
produzione letteraria.
Ora, non si vuol negare un che di costruttivo nello sperimentare
e rapportare a sé e alla propria coscienza situazioni
di personaggi e relativi stati d'animo, quando cala il sipario
sulla pagina letta e ci si acquieta più o meno soddisfatti.
Ma il problema è stato prima, nella lettura contenutistica
che non coglie tutti i fini del testo letterario. Il contenutismo
si è radicato nelle abitudini, anzi di più,
nelle 'convinzioni' della lettura a danno delle piene risorse
dell'intelletto, che liberato da squilibri o vizi asseconderebbe
invece l'intero fenomeno artistico della letteratura.
Questo fenomeno può avvenire tanto con la poesia
quanto con la prosa, e della prosa non intendo quella cosiddetta
lirica, ma dico proprio anche la narrativa. La plurivocità
del discorso poetico (al quale Della Volpe assegnava la
definizione che io adotto per il generico testo espressivo)
è consegnata all'ingrediente elementare dell'espressione,
la parola, che secondo le altre parole cui s'accompagna,
i fattori del ritmo, le pause versali, apre i varchi del
senso ulteriore (ancora con Della Volpe, è il 'polisenso').
Ma anche il racconto o il romanzo possono includere elementi
di plurivocità. E verso chi osserva che il narrare
ha un altro scopo, cioè specificamente raccontare
'storie', perciò non vive di linguaggio plurivoco
e non serve che ne abbia, mi spiego con un esempio minimo
e lampante.
Il primo e fondamentale romanzo italiano moderno, peraltro
di intenti storicistici, morali e linguistici molto ragionati
dall'autore, ci introduce in questo modo al 'dove' si svolge
la 'storia' di Renzo e Lucia: «Quel ramo del lago
di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte
di monti ...». È il primo segmento fraseologico
di un incipit chiaro e razionale, nel quale però
colui che legge con intelletto pieno può avvertire
già una 'retrovisione' dello scenario ambientale
naturale. Vediamo come. In "Quel ramo del lago di Como"
le allitterazioni e assonanze che leggendo fanno suono "e-a-o_e-a-o_o-o"
e gli accenti lievi e forti che cadono sulle sillabe, e
che rappresentati con i segni "-" e "+"
hanno andamento "| - | + | - | - | + | - | - | + |
- |", in sole sei - non a caso brevi - parole danno
proprio un'impressione di calma piana di lago appena mossa
da onde. Gli effetti del segmento però non hanno
ragioni esclusivamente fonologiche, com'è evidente
in "che volge a mezzogiorno". Qui sovviene alla
mente la luce della mattina, sebbene "mezzogiorno"
indichi il sud e non l'orario mattutino. Il segreto è
nella scelta delle due parole. Non si può sapere
quale sia stata l'elaborazione o l'intuizione verbale dello
scrittore, ma nel risultato il verbo "volge",
oltre che presentare un richiamo fonico in "gi"
col sostantivo "mezzogiorno" (che non avrebbe
con le alternative 'sud' o 'meridione'), soprattutto ha
in sé la semantica del formare un arco, del compiere
un moto a 'volta' come fa il sole, e da questo ulteriore
spostamento semantico all'idea del sole nasce l'impressione
che il panorama sia visto al mezzodì. Infine giungendo
a "tra due catene non interrotte di monti", l'alternanza
delle lettere "t" fra i richiami di "r"
ed "e" e "n" (allitterazioni) procurano
quasi la comparsa visiva dei monti, per associazione sonora
alla lettera "t" della parola stessa e più
ancora delle parole "punta" e "vetta".
Ebbene, effettivamente non si chiede a un romanzo di rendere
a ogni frase effetti simili. Non conosco e credo che non
esista nessuna misura più lunga di un sonetto che
resista a tanto, né in poesia né in prosa.
Né la prosa si giova della struttura versale che
sta a fondamento sia delle sonorità ritmiche, sia
dell'efficacia verbale, sia della partitura intonazionale.
Tuttavia l'esempio addotto forse adesso fa capire che anche
il testo narrativo può suscitare figurazioni, evocazioni,
aggiunzioni di senso, sovvenimento di latenze mentali, ampliando
la gittata cognitiva dei costituenti la narrazione. Senza
dire di plurivocità che vi si possono situare quali
simboli o allegorie.
Insomma, poesia o prosa, se oltre al contenuto esplicito
venissero letti gli accorgimenti formali e semantici di
un testo - e l'autore avesse avuto la capacità di
scriverli - dal fenomeno d'arte letteraria di cui parlo
si otterrebbe una diversa sorta di illuminazione, un effetto
che corrisponde pagina dopo pagina e globalmente non tanto
o non solo ai nodi dello stomaco o ai battiti del cuore
emozionati, ma anche o piuttosto a uno slegamento della
mente e al respiro, la cui sorpresa sarebbero le appaganti
latitudini di un partecipare e conoscere intero.
Non so spiegarmi più esaurientemente. Dico solo
che questa sarebbe la compiuta emozione, se così
si potesse ancora chiamare, della letteratura, oltre la
frattura tra logica ed emozione. Forse qualcosa di meglio
della catarsi, poiché la dissidenza fra passione
e ragione non vi si esaurirebbe, bensì non si presenterebbe
affatto.
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Nota 1
Che l'uomo sia stato comunemente pensato diviso in due
parti distinte e discordanti, in quella sua dimensione immateriale
eppure senziente chiamata anima, è noto fin dalle
speculazioni di Platone (escludendo l'anima 'concupiscente'
connessa a desideri e bisogni fisiologici). La medesima
idea fu rafforzata, anche se non in modo incontrastato,
dal razionalismo cartesiano all'ingresso della filosofia
moderna. Le emozioni, o passioni, erano considerate una
sorta di 'strappo' dell'essenza razionale. Ma più
che la filosofia è il pensiero scientifico a cambiare
le visuali nell'Ottocento, e con Darwin si fa strada la
tesi che le emozioni costituiscano un meccanismo adattativo
per la sopravvivenza della specie. Dopo di che Freud non
contrappone più ragione ed emozione e le intende
come componenti inscindibili del funzionamento della mente,
dove l'emozione è la parte in ombra. Nella contemporaneità
si è aperto il dibattito delle scienze umane sulla
circostanza che l'emozione faccia parte della 'cognizione'.
Finché in tempi pressoché recenti, da fonti
neuroscientifiche si è andata evolvendo una concezione
della mente umana quale unità, che agisce 'in accordo'
a due forze non separate bensì interdipendenti. Il
medico Antonio Damasio, portoghese che opera negli U.S.A.,
ha persino scritto un libro dal titolo L'errore di Cartesio
(1994). Secondo le sue esperienze, la concezione che separa
mente e corpo è del tutto errata, e l'errore di Cartesio
è stato di non capire che la natura ha costruito
l'apparato della razionalità non solo al di sopra
di quello della regolazione biologica ma anche a partire
da esso. Così per esempio, un processo decisionale
di scelta fra alternative per Damasio non dipende affatto
dal solo raziocinio, bensì è condizionato
dalle risposte somatiche emotive, utilizzate da un soggetto
come indicatori della bontà o meno di una certa prospettiva.
Io penso che l'approccio e la scoperta siano interessanti
per il futuro delle idee sull'essere umano, tuttavia per
ora non producono comportamenti sani o armoniosi né
degli individui né delle società. Psichiatri
e sociologi, altrimenti, non descriverebbero panorami disastrosi
di separazione fra emozione e razionalità nella nostra
epoca. Pertanto direi che, al di là della ricerca
sul funzionamento biologico - cerebrale - della coscienza,
ed eventualmente di una futura 'educazione' degli individui
basata sui suoi risultati, la circostanza che conta è
come usiamo oggi le due risorse di razionalità ed
emozione, consapevolmente o inavvertitamente.
Nota 2
Sulla lettura corretta della poesia, e in particolare sull'importanza
del ritorno a capo, segnalo il mio saggio Il 'versus'
nel Canto V dell'Inferno, reperibile in libreria ma
anche nel web in cartaceo e formato ebook, in www.youcanprint.it
e nei maggiori 'store online'.
Luigi Arista
(gennaio 2016)
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