di Matteo Veronesi
A ben vedere, almeno da Baudelaire in poi, i grandi poeti
sono stati quasi tutti grandi critici (da Baudelaire stesso
a Mallarmé a Valéry, da Eliot a Pound a Montale
a Ungaretti, e poi Luzi, Sanguineti, Zanzotto...). Non è
una regola fissa, ma è un dato con cui confrontarsi.
La poesia moderna, forse proprio a partire dal momento in
cui, con la baudelairiana "perdita d'aureola",
la sua legittimità, il suo valore, forse la sua stessa
ragion d'essere e la sua stessa sopravvivenza sono stati
messi in dubbio, ha avvertito come necessario l'affiancamento
di una riflessione critica, anzi lo stretto e vitale intreccio
con essa.
***
Ma proprio per questo, forse, paradossalmente, poesia e
critica, considerate in sé, disgiuntamente l'una
dall'altra, non esistono.
La grande poesia è metapoesia, è riflessione,
implicita o esplicita, sulla poesia, assidua interrogazione
della propria ragion d'essere, dei propri limiti, dei propri
mezzi e fini. E la grande critica è sempre creazione,
è sempre "poème critique", secondo
la definizione di Mallarmé.
Una critica che non sia anche poesia è esercizio
accademico, vuoto tecnicismo, meccanica filologia di chi
legge senza capire e, peggio, senza sentire; o semplice
chiacchiera giornalistica, o vaniloquio; una poesia che
non sia anche critica (critica di se stessa ma anche critica
della vita, "criticism of life", come Matthew
Arnold, seguito da Charles Du Bos, definiva la letteratura)
è sbadata prosa che va a capo ogni tanto, non si
sa perché; o ingenua effusione, o retorica, o propaganda,
per di più inascoltata e vana.
Poesia e critica non esistono perché svaniscono,
l'una e l'altra, l'una nell'altra, nella fiamma della propria
fusione, "nel foco che le affina".
Non è "irrazionalismo" ermetico; è
passione intellettuale.
***
La critica, da sola, in sé, non esiste; o, meglio,
non è, ma diviene.
I parametri di giudizio cambiano nei secoli.
Nessuno negherà che Voltaire fu uno dei maestri della
modernità, o almeno di una delle varie modernità
possibili (non necessariamente sul piano letterario); fu,
ed è ancora, per molti, un maestro; e fautore di
una forma di classicità e di classicismo intesi come
equilibrio, norma, regola, ordine, "canone"...
Eppure si resta sbalorditi leggendo i suoi giudizi su Shakespeare
"sauvage ivre", su Dante "bizarre",
"étrange", "divinité cachée"
di cui nessuno intende gli oracoli...
***
Agli occhi di un giudizio indifferente o sbadato, Dante
Alighieri vale Dante da Maiano. Ma confondere l'uno con
l'altro era precisamente ciò che nel Medioevo facevano,
a volte, alcuni amanuensi, non necessariamente incolti,
quando attribuivano all'uno i sonetti dell'altro, generando
incertezze che durarono, a volte, almeno fino al tardo Ottocento.
(Anche il semplice copista, nel momento in cui apponeva
un'attribuzione, o sceglieva o introduceva una variante,
compiva, magari inconsapevolmente, un atto ad un tempo critico,
storico e creativo, diveniva anello attivo e vitale di una
tradizione: noi leggiamo, e dunque pensiamo, e dunque siamo,
ciò che il passato - un passato, spesso, senza nome
né volto - ha scelto per noi, con criteri sovente
oscuri. Il nostro pensiero è un libro già
vergato. Siamo pagine già scritte. Molte sono state
strappate. Ma questa è un'altra storia).
***
Poesia e critica si fondono in un nodo di Moebius che,
però, in sé e per sé, è incline
ad assumere forme e striature e riflessi diversi e cangianti
al contatto del fluire del tempo, del divenire della storia.
Costanti nella tensione del loro nodo, nella necessità
della loro fusione, poesia e critica mutano, con il mutare
dei tempi, nei parametri e nelle prospettive.
In ciò stanno la loro relatività, la loro
parzialità, ma anche la loro libertà - in
definitiva, la loro umanità.
***
Oggi (non saprei dire esattamente da quando) sembra che
quella preziosa e vitale sorellanza di poesia e critica
si sia infranta. E tanto la parola della poesia quanto quella
della critica patiscono una sorta di orfanità, di
sradicamento, un'erranza senza luce.
Ma, forse, è la condizione stessa del linguaggio,
oggi: che, mentre da un lato ha perso autocoscienza, ha
smarrito la consapevolezza di sé che proprio quel
nesso di creazione e critica, di sentimento e pensiero contribuì,
per secoli, vitalmente, a salvaguardare - la poesia, diceva
Pound, mantiene in efficienza il linguaggio -, dall'altro
sembra precisamente - a volte nella poesia stessa, specie
in quella che troppo si avvicina al dettato discontinuo
e sbadato della prosa quotidiana - aver perso sostanza,
essersi staccato dalle cose e dai sentimenti, essere divenuto
come un guscio vuoto di cicala che sibila vanamente al vento.
Fine a se stesso, in certo modo, il linguaggio; "autoreferenziale":
ma non nel modo, vitale e vibrante, della poesia; bensì
in quello, insensato, dell'automatismo, della chiacchiera,
dell'assiduo mormorio che vuole ad ogni costo esorcizzare
il silenzio, e in realtà non fa che sporcarlo - il
silenzio da cui precisamente nasce la parola della poesia,
"scavata come un abisso".
***
(Ma può darsi, per contro, che proprio la poesia-prosa
voglia riscattare quel linguaggio, redimere la parola precisamente
recuperandola, così com'è, dal fondo di quel
decadimento, per riportarla, in nuovi contesti, alla vita:
in questo senso si è teorizzato, in Francia, un "lyrisme
critique", un lirismo impuro, "critico" proprio
perché si misura con le macerie del quotidiano, con
il grigiore del contemporaneo: il nesso poesia-critica potrà
allora essere ripensato non nella direzione della "poésie
pure", cui è stato per lungo tempo coessenziale,
ma esattamente in quella del suo contrario?).
Matteo Veronesi (marzo 2016)
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