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Teorica

Poesia, critica, inesistenza

di Matteo Veronesi

 

 

A ben vedere, almeno da Baudelaire in poi, i grandi poeti sono stati quasi tutti grandi critici (da Baudelaire stesso a Mallarmé a Valéry, da Eliot a Pound a Montale a Ungaretti, e poi Luzi, Sanguineti, Zanzotto...). Non è una regola fissa, ma è un dato con cui confrontarsi.
La poesia moderna, forse proprio a partire dal momento in cui, con la baudelairiana "perdita d'aureola", la sua legittimità, il suo valore, forse la sua stessa ragion d'essere e la sua stessa sopravvivenza sono stati messi in dubbio, ha avvertito come necessario l'affiancamento di una riflessione critica, anzi lo stretto e vitale intreccio con essa.

 

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Ma proprio per questo, forse, paradossalmente, poesia e critica, considerate in sé, disgiuntamente l'una dall'altra, non esistono.
La grande poesia è metapoesia, è riflessione, implicita o esplicita, sulla poesia, assidua interrogazione della propria ragion d'essere, dei propri limiti, dei propri mezzi e fini. E la grande critica è sempre creazione, è sempre "poème critique", secondo la definizione di Mallarmé.
Una critica che non sia anche poesia è esercizio accademico, vuoto tecnicismo, meccanica filologia di chi legge senza capire e, peggio, senza sentire; o semplice chiacchiera giornalistica, o vaniloquio; una poesia che non sia anche critica (critica di se stessa ma anche critica della vita, "criticism of life", come Matthew Arnold, seguito da Charles Du Bos, definiva la letteratura) è sbadata prosa che va a capo ogni tanto, non si sa perché; o ingenua effusione, o retorica, o propaganda, per di più inascoltata e vana.
Poesia e critica non esistono perché svaniscono, l'una e l'altra, l'una nell'altra, nella fiamma della propria fusione, "nel foco che le affina".
Non è "irrazionalismo" ermetico; è passione intellettuale.

 

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La critica, da sola, in sé, non esiste; o, meglio, non è, ma diviene.
I parametri di giudizio cambiano nei secoli.
Nessuno negherà che Voltaire fu uno dei maestri della modernità, o almeno di una delle varie modernità possibili (non necessariamente sul piano letterario); fu, ed è ancora, per molti, un maestro; e fautore di una forma di classicità e di classicismo intesi come equilibrio, norma, regola, ordine, "canone"...
Eppure si resta sbalorditi leggendo i suoi giudizi su Shakespeare "sauvage ivre", su Dante "bizarre", "étrange", "divinité cachée" di cui nessuno intende gli oracoli...

 

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Agli occhi di un giudizio indifferente o sbadato, Dante Alighieri vale Dante da Maiano. Ma confondere l'uno con l'altro era precisamente ciò che nel Medioevo facevano, a volte, alcuni amanuensi, non necessariamente incolti, quando attribuivano all'uno i sonetti dell'altro, generando incertezze che durarono, a volte, almeno fino al tardo Ottocento.
(Anche il semplice copista, nel momento in cui apponeva un'attribuzione, o sceglieva o introduceva una variante, compiva, magari inconsapevolmente, un atto ad un tempo critico, storico e creativo, diveniva anello attivo e vitale di una tradizione: noi leggiamo, e dunque pensiamo, e dunque siamo, ciò che il passato - un passato, spesso, senza nome né volto - ha scelto per noi, con criteri sovente oscuri. Il nostro pensiero è un libro già vergato. Siamo pagine già scritte. Molte sono state strappate. Ma questa è un'altra storia).

 

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Poesia e critica si fondono in un nodo di Moebius che, però, in sé e per sé, è incline ad assumere forme e striature e riflessi diversi e cangianti al contatto del fluire del tempo, del divenire della storia.
Costanti nella tensione del loro nodo, nella necessità della loro fusione, poesia e critica mutano, con il mutare dei tempi, nei parametri e nelle prospettive.
In ciò stanno la loro relatività, la loro parzialità, ma anche la loro libertà - in definitiva, la loro umanità.

 

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Oggi (non saprei dire esattamente da quando) sembra che quella preziosa e vitale sorellanza di poesia e critica si sia infranta. E tanto la parola della poesia quanto quella della critica patiscono una sorta di orfanità, di sradicamento, un'erranza senza luce.
Ma, forse, è la condizione stessa del linguaggio, oggi: che, mentre da un lato ha perso autocoscienza, ha smarrito la consapevolezza di sé che proprio quel nesso di creazione e critica, di sentimento e pensiero contribuì, per secoli, vitalmente, a salvaguardare - la poesia, diceva Pound, mantiene in efficienza il linguaggio -, dall'altro sembra precisamente - a volte nella poesia stessa, specie in quella che troppo si avvicina al dettato discontinuo e sbadato della prosa quotidiana - aver perso sostanza, essersi staccato dalle cose e dai sentimenti, essere divenuto come un guscio vuoto di cicala che sibila vanamente al vento.
Fine a se stesso, in certo modo, il linguaggio; "autoreferenziale": ma non nel modo, vitale e vibrante, della poesia; bensì in quello, insensato, dell'automatismo, della chiacchiera, dell'assiduo mormorio che vuole ad ogni costo esorcizzare il silenzio, e in realtà non fa che sporcarlo - il silenzio da cui precisamente nasce la parola della poesia, "scavata come un abisso".

 

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(Ma può darsi, per contro, che proprio la poesia-prosa voglia riscattare quel linguaggio, redimere la parola precisamente recuperandola, così com'è, dal fondo di quel decadimento, per riportarla, in nuovi contesti, alla vita: in questo senso si è teorizzato, in Francia, un "lyrisme critique", un lirismo impuro, "critico" proprio perché si misura con le macerie del quotidiano, con il grigiore del contemporaneo: il nesso poesia-critica potrà allora essere ripensato non nella direzione della "poésie pure", cui è stato per lungo tempo coessenziale, ma esattamente in quella del suo contrario?).

 

 

Matteo Veronesi (marzo 2016)

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nel n. 2 del 17 gennaio 2016

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