di Andrea Matucci
I protagonisti maschili del campo cristiano vengono concepiti
dal Tasso, nella Gerusalemme Liberata, come simboli
- e vittime - della fondamentale contraddizione che percorre
tutto il poema: quella fra i valori dell'antica nobiltà
cavalleresca, protagonista di tanti poemi eroici della tradizione,
e la nuova ideologia culturale ispirata sempre più
pesantemente dalla Controriforma. Fino all'Ariosto infatti
il cavaliere protagonista delle storie è fondamentalmente
un cavaliere errante, i cui riferimenti sono la gloria delle
singole prove superate e l'amore, quasi sempre premio delle
imprese stesse: Orlando, Rinaldo, Zerbino e tutti gli altri
hanno sì nel poema ariostesco il dovere di difendere
Parigi dalla minaccia saracena, ma o impazziscono per amore,
oppure conservano fino alla fine, nonostante il necessario
buon esito della guerra, la loro anima individualista di
eroi solitari. Non contraddizione quindi ma equilibrio,
ultimo e massimo risultato della fusione fra la tradizione
bretone e quella carolingia già operata dal Boiardo;
e il successo di questo equilibrio fu come si sa epocale,
essendo l'Orlando Furioso sicuramente uno dei libri
più letti del Cinquecento poiché una intera
classe dirigente nobiliare, dedita al culto dei propri valori
fondanti, vi si specchiava. Ma quando, verso la metà
del secolo, sulla scorta di testi come la Poetica di Aristotele,
la classicità degli antichi poemi greci e latini
divenne modellizzante, e quindi si cominciò a sentire
come un dovere dello scrittore il dedicarsi a un unico eroe
e a un'unica vicenda, ambedue mitizzabili, lo straordinario
successo di pubblico dell'Ariosto cominciò a confliggere,
come si direbbe adesso, con i dettami della critica. E quando
a tutto questo si aggiunse l'integralismo cattolico sancito
dal Concilio di Trento, e si cominciarono a sentire avventure
e amori come devianti rispetto a una missione educativa
della scrittura, cominciarono anche a diffondersi tentativi
di adeguamento: un solo eroe, una sola impresa, un insegnamento
morale. Ma non era più tempo di Eneide, e
scrittori anche di buona lena, come Trissino, fino al padre
stesso di Torquato Tasso, Bernardo, produssero poemi di
una piattezza e di una noiosità incredibili, impossibili
a leggersi oggi e forse anche allora. Qui la genialità
del Tasso figlio: non evitare, ma problematizzare la contraddizione,
fare della contraddizione stessa uno dei motori, forse il
più importante, della trama: ne nacque un'opera,
inutile dirlo, che sta a buon diritto fra i classici di
tutti tempi, perché come ogni classico, e forse più
di molti altri che sono così definiti, è inguaribilmente
moderna.
Già nella rassegna dell'esercito cristiano, nel primo
canto, Tancredi, definito "eccelso ed intrepido di
core", è d'altra parte oppresso da una "colpa",
che si chiama "follia d'amore": la scena rapidamente
qui descritta in flashback, a interruzione della trama militare,
è il memorabile incontro sul fiume, dove i due nemici
per caso si dissetano, e l'immagine della donna "bella
e guerriera" si stampa nella mente del protagonista
come in quella dei lettori. Ma il sublime squarcio petrarchesco,
chiuso nella memoria, diviene una condanna: unico fra i
compagni, Tancredi non partecipa del santo entusiasmo guerresco,
e «porta / basse le ciglia e di mestizia piene».
Più tardi, nel bel mezzo di una battaglia, un colpo
di spada fa saltare l'elmo di Clorinda: «e le chiome
dorate al vento sparse / giovane donna in mezzo al campo
apparse». Di nuovo una bellissima interruzione del
clima guerresco, e di nuovo la sua negatività, perché
Tancredi non solo non risponde ai colpi del nemico, ma ad
esso si arrende per forza d'amore, dimenticando la sua missione
e se stesso: «Il mio cor, non più mio, s'a
te dispiace / ch'egli più viva, volontario more».
La contraddizione è già operante: l'eroe cristiano,
destinato a rimanere nella nostra memoria per la sua perfetta
incarnazione di un petrarchesco amore impossibile, è
reso proprio da questo amore soldato imbelle, inutile alla
causa per la quale ha seguito l'esercito in Terra santa,
e anzi, potenzialmente dannoso, come quando, al sesto canto,
Argante sfida a singolar tenzone un campione cristiano,
e Tancredi, scelto da Goffredo in quel momento a rappresentare
l'onore cristiano e tutto il destino della guerra, esce
dal campo deciso a difendere la sua causa. Ma poi appare
Clorinda, uscita dalla città come scorta di Argante,
e Tancredi non guarda più davanti a sé, contro
il nemico, «ma move il suo destrier con lento passo,
/ volgendo gli occhi ov'è colei sul colle; / poscia
immobil si ferma e pare un sasso: / gelido tutto fuor, ma
dentro bolle.» La contraddizione è divenuta
insostenibile, e da essa si può uscire solo, come
ognuno ricorda, attraverso la più tragica delle lacerazioni,
quando il caso - che ovviamente non esiste in letteratura
- porta l'eroe cristiano a uccidere senza saperlo proprio
la donna-guerriera di cui è innamorato: è
il famosissimo episodio della morte di Clorinda, musicato
già da Monteverdi e immortalato da numerosissimi
pittori e illustratori del testo, vero centro drammatico
della trama, perché in esso si concentra tutto il
dolore e il sacrificio del necessario annullamento dell'amore
di fronte al dovere, cioè dell'ideale cavalleresco
di fronte alla nuova missione religiosa e alla guerra santa.
Ed è notevole infatti che poco dopo Tancredi sia
salvato dalla disperazione e dal suicidio, e ricondotto
al convinto servizio dei suoi doveri morali e militari proprio
da Pietro l'eremita, ecclesiastico al seguito dell'esercito,
che gli parla di una "seconda", nel senso di fortunata,
"aversità", di un "pietoso sdegno"
di Dio che, già come una "provvida sventura"
di manzoniana memoria, è inteso a risollevare l'eroe
dalla sua "folle colpa" e reindirizzarlo, senza
più ostacoli, alla sua missione.
La vicenda dell'altro eroe cristiano, Rinaldo, è
se si vuole ancora più esplicita nel senso dell'approfondimento
e poi del superamento forzato della contraddizione. Rinaldo
all'inizio non incarna l'amore, ma l'altro corno dell'ideologia
cortese, l'onore. Quando un compagno d'armi, forse di lui
più nobile ma certo meno valoroso, pretenderà
per sé le armi di un altro capitano morto in battaglia,
Rinaldo sarà offeso da tale pretesa, e ucciderà
nel suo stesso campo un altro campione cristiano, suscitando
le ire del comandante in capo, Goffredo, che ne vorrà
la giusta punizione o l'esilio. L'onore individuale del
nobile cavaliere così di nuovo confligge, come il
sentimento amoroso, contro l'unità di un esercito
votato a un'unica santa missione, e, novello Achille, Rinaldo
attraverserà tutta la parte centrale del poema come
eroe assente: non ritirato nella sua tenda ma, molto peggio,
"errante", in tutti i significati di questa parola.
Finché la bellissima maga Armida, reduce dall'avere
anch'essa turbato i sonni del povero Goffredo, avendo fatto
invaghire di sé - e quindi deviato - molti combattenti
cristiani, si innamorerà di lui, tornando da maga
solo e soltanto donna, e lo porterà con sé
lontano, su un'isola in mezzo all'oceano. Tre canti, su
venti, sono dedicati dal Tasso a questa ulteriore magnifica
devianza, nel viaggio dei due soldati cristiani inviati
a "liberare" l'eroe, e soprattutto nell'estasiata
descrizione del piccolo paradiso terrestre in cui i due
consumano i loro amori: soprattutto il sedicesimo canto
è dedicato a questo inno alla bellezza e alla felicità
terrena, e mai è stato così pericoloso inserire,
fra gli insegnamenti morali al lettore, anche la completa
affermazione di quanto sia affascinante il male: «cogliam
la rosa in su 'l mattino adorno / di questo dì, che
tosto il seren perde.» Ma di nuovo, con la stessa brutalità
e violenza della morte di Clorinda, la contraddizione viene
risolta: Rinaldo è costretto a specchiarsi nel suo
stesso scudo e a vergognarsi di aver dimenticato il dovere,
e Armida è da un momento all'altro crudelmente abbandonata,
costretta a inseguire il suo amato, a umiliarsi di fronte
a lui, in quella che è una delle più belle
riscritture del mito di Didone: «O tu che porte / parte
teco di me, parte ne lassi, / o prendi l'una o rendi l'altra,
o morte / dà insieme ad ambe
». Né
bastano, in questo caso, le parole di un sacerdote a riportare
il peccatore sulla retta via: Rinaldo dovrà porsi
al centro di un rito pubblico di purificazione, alla luce
dell'alba, sul monte Oliveto, perché se eclatante,
e pericolosa, è stata adesso la deviazione, altrettanto
eclatante, ed ecclesiale, dovrà essere la dichiarazione
del ritorno nella norma.
Questi sono i protagonisti della Gerusalemme: primi
personaggi moderni della nostra letteratura perché
lacerati e intimamente contraddittori, fortissimi ma fragili,
e soprattutto specchi della stessa interiore contraddizione
tassiana fra amore per le nobili tradizioni cavalleresche
e convinta fedeltà ai dettami della Controriforma.
Sono i protagonisti primi, anche perché stanno dalla
parte giusta, dalla nostra parte, difendono i nostri stessi
valori cristiani anche - è il massimo dell'eroismo
- contro se stessi. Di fronte a loro il nemico, gli infedeli,
con tutto il peso che questa caratteristica può avere
alla fine del Cinquecento, dopo decenni di lotte religiose
- e siamo solo all'inizio. C'è un re, anche dall'altra
parte, sovrano della città assediata e naturale comandante
di un esercito che però non è un esercito
ma un popolo, quello da secoli residente nei luoghi sacri
alla nostra religione. E quando nel corso del poema un esercito
si forma, a difesa di Gerusalemme, non è unitario
come quello cristiano, né come quello vuole esserlo:
giungono forze dall'Egitto, dalla Siria, perfino da regioni
più orientali, e ogni popolo ha un suo re e suoi
generali, per cui di fronte alla compattezza - cercata -
di Goffredo si pone una multicolore e un po' selvaggia eterogeneità,
tenuta insieme solo da un obiettivo che certo non è
il più insignificante degli obiettivi: ricacciare
in mare quello che appare a sua volta, da questa prospettiva,
un barbaro invasore infedele. Per questo, e perché
non devono essere portatori o interpreti di nessuna particolare
missione ideologica, i nomi che emergono nell'altro campo,
Argante e Solimano, sono nient'altro che eroi di nobile
lignaggio, più valorosi di altri della stessa fede
e forse più di altri convinti della necessità
di quanto sopra, cioè di respingere gli invasori.
E come spesso accade, nei romanzi di ogni epoca, i personaggi
meno appesantiti da un compito tematico, meno investiti
cioè di una simbologia ideologica, quelli che devono
rappresentare solo se stessi in quanto individui, finiscono
per essere i più sinceramente vicini all'anima di
chi scrive, alle sue emozioni e non alle sue idee.
Argante entra in scena già al secondo canto, come
ambasciatore presso Goffredo. Sdegnoso - come quest'ultimo,
del resto - delle sottili proposte diplomatiche con cui
l'altro ambasciatore, Alete, tenta sia di convincere i cristiani
della pericolosità della guerra intrapresa, sia di
condurli a un accordo territoriale, Argante entra in scena
impaziente e furioso, unendo l'atto alle parole come un
consumato attore, o meglio come un futuro tenore verdiano
ben diretto dal suo regista:
Indi il suo manto per lo lembo prese,
curvollo e fenne un seno; e il seno sporto,
così pur anco a ragionar riprese
via più che prima dispettoso e torto:
"O sprezzator de le più dubbie imprese,
e guerra e pace in questo sen t'apporto:
tua sia l'elezione; or ti consiglia
senz'altro indugio, e qual più vuoi ti piglia."
L'atto fero e il parlar tutti commosse
a chiamar guerra in un concorde grido,
non attendendo che risposto fosse
dal magnanimo duce lor Goffrido.
Spiegò quel crudo il seno e 'l manto scosse,
ed: "A guerra mortal" disse "vi sfido";
e 'l disse in atto sì feroce ed empio
che parve aprir di Giano il chiuso tempio.
Fattosi così prepotentemente largo sul campo della
guerra, Argante non l'abbandonerà più fino
alla fine, animando più di ogni altro i suoi alla
resistenza, e soprattutto indicando più di ogni altro
il nemico straniero come "predator cristiano".
Pur alzando qualche volta il tono della sua ira feroce un
po' sopra le righe, producendo altre fosche scene da melodramma,
Argante rimane comunque, per tutto il poema, spinto da un
primigenio senso dell'onore cavalleresco, quello, ancora
tanto caro agli eroi ariosteschi, che preferisce la singolar
tenzone alla guerra organizzata, e che riconosce solo il
valore e la forza dell'uomo: per questo tenterà più
volte di risolvere la guerra sfidando da solo, novello Turno,
quello che gli altri riterranno il migliore dei loro; e
per questo alla fine, quando la sconfitta sarà certa,
e il migliore degli assalitori, Tancredi, sarà finalmente
disponibile al duello solitario, Argante gli getterà
addosso la vergogna di aver conquistato Gerusalemme solo
per la superiorità tecnica degli armamenti. Nei preparativi
e nella descrizione della battaglia finale Tasso aveva infatti
dedicato molta attenzione al grande dispiegamento di ordigni
bellici da parte dell'esercito cristiano: catapulte, arieti
e soprattutto torri, mobili altissime e stabili, capaci
di accostare le mura e di portare armi e soldati alla stessa
loro altezza, veri prodigi di ingegneria in cui non c'è
niente di magico o incantato, ma solo la superiore perizia
di una civiltà più moderna e più ricca
di quella avversaria. Coerente con i propri ideali cavallereschi,
Argante dunque giustamente inveisce, nel momento in cui
si profila l'ultimo duello, contro colui che non appare
più un combattente tradizionale e leale:
Ma sovra ogni altro feritore infesto
sovragiunge Tancredi e lui percote.
Ben è il circasso a riconoscer presto
al portamento, agli atti, a l'arme note,
lui che pugnò già seco, e 'l giorno sesto
tornar promise, e le promesse ìr vòte.
Onde gridò: "Così la fé, Tancredi,
mi servi tu? Così a la pugna or riedi?
Tardi riedi, e non solo; io non rifiuto
Però combatter teco e riprovarmi,
benché non qual guerrier, ma qui venuto
quasi inventor di machine tu parmi.
Fatti scudo de' tuoi, trova in aiuto
novi ordigni di guerra e insolite armi,
che non potrai da le mie mani, o forte
de le donne uccisor, fuggir la morte."
L'allusione alla morte di Clorinda, l'unica provocazione
che Tancredi poi raccoglie, è particolarmente velenosa,
e il combattimento dell'inizio del XIX canto, l'ultimo vero
duello cavalleresco del poema e della nostra letteratura,
sarà come non mai feroce e come non mai descritto
dall'espertissimo Tasso in ogni minimo movimento di difesa,
di finta e di attacco; ma, prima che il duello inizi, i
due si allontanano dall'affollato campo di battaglia, verso
una "ombrosa angusta valle" giusto "teatro"
per concludere la loro privata sfida. Qui Tancredi, da quel
nobile cavaliere che ovviamente sappiamo essere, anche se
ormai è parte di una devastante macchina da guerra,
getta via il suo scudo, perché ha visto che Argante
ne è privo. Ma poi non è minimamente in grado
di capire la tristezza dell'avversario fermo a guardare
la città in fiamme, dove il rammarico di non aver
saputo difendere il suo popolo con la forza del suo braccio
diventa, nelle accorate parole di Argante, l'elegia funebre
per un mondo che scompare. Un mondo di infedeli, sì,
di usurpatori del Santo Sepolcro, ma anche un mondo di nobili
valori ormai superati dalla storia:
Qui si fermano entrambi, e pur sospeso
volgeasi Argante a la cittade afflitta.
Vede Tancredi che 'l pagan difeso
non è di scudo, e 'l suo lontano ei gitta.
Poscia lui dice: "Or qual pensier t'ha preso?
pensi ch'è giunta l'ora a te prescritta?
S'antivedendo ciò timido stai,
è 'l tuo timore intempestivo omai."
"Penso" risponde "a la città
del regno
di Giudea antichissima regina,
che vinta or cade, e indarno esser sostegno
io procurai della fatal ruina,
e ch'è poca vendetta al mio disdegno
il capo tuo che 'l Cielo or mi destina."
Tacque, e incontra si van con gran risguardo,
ché ben conosce l'un l'altro gagliardo.
Ovviamente non c'è incertezza sull'esito di questo
scontro: Argante deve morire, come più tardi Solimano,
non per debolezza o incapacità, ma come vittima di
un destino che ha chiuso ogni strada, e come araldo di una
tradizione che non ha più ragione di esistere. E
nella magia dei versi del Tasso, qui in modo assolutamente
evidente più partecipe del vinto che del vincitore,
la caduta di Argante è allo stesso tempo affermata
e negata, sottratta all'altrui determinazione e ricondotta
a fatale condanna, anche attraverso la totale immedesimazione
della seconda persona, l'uso della quale è nel poema
rarissimo:
Quel doppia il colpo orribile, ed al vento
le forze e l'ire inutilmente ha sparte,
perché Tancredi, a la percossa intento,
se ne sottrasse e si lanciò in disparte.
Tu, dal tuo peso tratto, in giù col mento
n'andasti, Argante, e non potesti aitarte:
per te cadesti, aventuroso in tanto
ch'altri non ha di tua caduta il vanto.
E va notato infine che il colpo di grazia è inferto
da Tancredi su un corpo già caduto, attraverso l'atroce
e 'ignobile' gesto con cui, nelle guerre del tempo, i fanti
dotati solo di armi corte 'finivano' un nobile cavaliere
caduto, aprendosi l'unico varco possibile nella corazza.
È lo stesso identico gesto, sia detto per inciso,
con cui nelle ultime ottave dell'Orlando Furioso
Ruggero uccide Rodomonte: là si vuole controbilanciare
il tono festoso della vittoria e del predestinato matrimonio
con un'ultima nota di scura violenza; qui in qualche modo
retrocedere il nobile e raffinato Tancredi a uno stadio
di ferinità, a far meglio risaltare l'indomito eroismo
dell'altro:
Infuriossi allor Tancredi, e disse:
"Così abusi, fellon, la pietà mia?"
Poi la spada gli fisse e gli rifisse
ne la visiera, ove accertò la via.
Moriva Argante, e tal moria qual visse:
minacciava morendo, e non languia.
Superbi, formidabili e feroci
gli ultimi moti fur, l'ultime voci.
Solimano, l'altro protagonista in campo avverso, entra in
scena solo al nono canto, quasi a metà del poema:
è ancora più nobile di Argante, essendo un
re dell'Asia minore già spodestato dai cristiani,
e questo lo rende, a differenza dell'altro, caratterizzato
fin dal suo apparire dall'essere tragicamente in lotta contro
un destino di sconfitta che si è già manifestato.
Costretto a fuggire da una corte dispersa, si è fatto
capo di "schiere erranti", che in un'ottica 'europea'
sarebbero gruppi di nobili cavalieri, e con esse assale
improvvisamente, di notte, il campo cristiano, contravvenendo
a ogni regola e scatenando anche per questo un terrore quasi
demoniaco: «porta il Soldan su l'elmo orrido e grande
/ serpe che si dilunga e il collo snoda
». Ma
anche lui, come Argante, esce ben presto da queste tinte
fosche, quando nella stessa battaglia notturna viene crudelmente
ucciso un suo giovane e imbelle paggio, cara e ultima memoria
della sua un tempo sfarzosa reggia: «Tu piangi, Soliman?
Tu che destrutto / mirasti il regno tuo co 'l ciglio asciutto?»
Di nuovo il "tu", a segnalare tutta la partecipazione,
quasi l'immedesimazione del poeta di fronte al dolore e
alla sconfitta, che si profilerà di lì a poco,
e che riporterà definitivamente colui che si era
presentato come una furia sanguinaria ad essere solo e soltanto
un uomo: costretto a indietreggiare, giunto al limite della
sua "terrena forza", Solimano è stanco,
e privo di immediata speranza:
Come sentissi tal, ristette in atto
d'uom che fra due sia dubbio, e in sé discorre
se morir debba, e di sì illustre fatto
con le sue mani altrui la gloria tòrre,
o pur, sopravanzando al suo disfatto
campo, la vita in securezza porre.
"Vinca" al fin disse "il fato, e questa
mia
fuga il trofeo di sua vittoria sia.
Veggia il nemico le mie spalle, e scherna
di novo ancora il nostro essiglio indegno,
pur che di novo armato indi mi scerna
turbar sua pace e 'l non mai stabil regno.
Non cedo io, no; fia con memoria eterna
de le mie offese eterno anco il mio sdegno.
Risorgerò nemico ognor più crudo,
cenere anco sepolto e spirto ignudo."
Il "dubbio" da cui qui Solimano è assalito,
cioè la scelta fra una morte eroica a suggello della
sconfitta, e una ritirata che è una resa al fato
ma anche il proposito di tornare alla lotta in un momento
migliore, è assolutamente indegno di qualsiasi nobile
eroe guerriero che la letteratura ci abbia tramandato, da
Achille allo stesso compagno d'armi Argante: impensabile,
nei qui nominati e in qualsiasi altro esempio ci venga alla
memoria, "volgere le spalle", ed evitare, o rimandare,
la necessaria conclusione di un fatale destino di morte;
impensabile ragionare su ciò che sia più al
momento conveniente, e nel contempo accettare che il nemico
continui a "schernire" la vittima di un destino
di sconfitta che si ripete. Impensabile ma vero, credibile,
umano, nel momento in cui, per la prima volta, il lettore
di un poema epico o cavalleresco viene invitato a dismettere
la mitizzazione dell'eroe assoluto, e viene portato invece
a riconoscersi nell'umanità di un personaggio e nelle
sue reazioni, comprensibili perché comuni a chiunque.
Usciti con questi versi dal nono canto, ritroviamo conseguentemente
Solimano, nei primi versi del successivo, senza alcuno stacco,
mentre sale su un cavallo disperso e, privo dell'elmo, lacero
e ferito, fugge. Intanto continua a pensare, decide di portare
comunque aiuto alla causa, di dirigersi in Egitto, affrontando
un lungo e faticoso viaggio: lo vediamo, a sera, fermarsi,
fasciarsi le ferite, scuotere una palma per far cadere qualche
frutto, infine adagiarsi sul suo stesso scudo, oppresso
da "sdegno e dolore". Sarà destato dal
suo torbido sonno dal mago Ismeno, e portato in volo fin
dentro la città assediata, ma Tasso, prima di far
tornare il suo eroe ad essere degna pedina di un superiore
conflitto fra Bene e Male, ha voluto continuare a farlo
vivere, anche solo per poche ottave, nella dimensione di
quella fragile e oppressa umanità della quale, da
qui in poi, Solimano rimarrà simbolo.
Se per la prima volta il realismo della quotidianità
entra in un poema epico, e l'eroe è anche un uomo
che ha umane incertezze, e umanissima stanchezza, e fame,
e sonno, è perché così come nell'ispirazione
del Tasso convivono in pari grado il mito degli ideali cavallereschi,
onore e amore, e il mito di una ritrovata e combattiva identità
cattolica, allo stesso modo convivono l'idea di una guerra
santa e giusta e l'idea che la guerra sia, comunque, una
tragedia irreparabile. Ad Argante dunque, che mantiene fino
alla fine il suo intangibile spessore di nobile cavaliere,
mostrandosi solo in imprese degne e forti, è affidato
il compito di incarnare il vecchio mondo che scompare, superato
dalle necessità della storia; a Solimano, che piange
il suo dolore e, fattosi uomo fra gli uomini, lotta contro
la sua stessa disperazione, è affidato nell'ultimo
canto il compito di vedere e di far vedere, unico fra tutti
i personaggi, tutto l'orrore che accomuna vincitori e vinti:
Or mentre in guisa tal fera tenzone
è tra 'l fedel essercito e 'l pagano,
salse in cima a la torre ad un balcone
e mirò, benché lunge, il fer Soldano,
mirò, quasi in teatro od in agone,
l'aspra tragedia de lo stato umano:
i vari assalti e 'l fero orror di morte,
e i gran giochi del caso e de la sorte.
Stette attonito alquanto e stupefatto
a quelle prime viste; e poi s'accese,
e desiò trovarsi anch'egli in atto
nel periglioso campo a l'alte imprese.
Né pose indugio al suo desir, ma ratto
d'elmo s'armò, ch'aveva ogn'altro arnese:
"Su su" gridò "non più non
più dimora:
convien ch'oggi si vinca o che si mora."
Solo i suoi occhi potevano vedere «l'aspra tragedia
de lo stato umano»: se Argante vede la sconfitta di
una terra invasa dallo straniero, Solimano vede la più
generale sconfitta di una fragile umanità vittima,
in ogni caso, del suo destino e della sua sorte. Così,
quando poco dopo uno dei comandanti cristiani arriva finalmente
in cima a quella stessa torre, e «il trionfale / segno
della vittoria al vento scioglie», Solimano è
già altrove, fuori da una logica contingente di vittoria
o sconfitta, e si immerge, è proprio il caso di dirlo,
in un "regno di morte" che ha tinto espressionisticamente
di rosso tutta la terribile scena:
Giunge in campagna tepida e vermiglia
che d'ora in ora più di sangue ondeggia,
sì che il regno di morte ormai somiglia
ch'ivi i trionfi suoi spiega e passeggia.
Vede un destrier che con pendente briglia,
senza rettor, trascorso è fuor di greggia;
gli gitta al fren la mano e 'l vòto dorso
montando preme e poi lo spinge al corso.
Se dunque Argante muore indomito, lottando fino all'ultimo,
la morte di Solimano per mano di Rinaldo è ugualmente
prevedibile, ma del tutto diversa. La sua infatti non è
la morte dell'eroe, ma la morte dell'uomo, annichilito nell'ultimo
istante dal suo stesso sacro terrore, incapace di continuare
oltre l'impari lotta col proprio destino; e Rinaldo che
sopraggiunge non è qui un personaggio, un nemico
identificabile, ma è quel destino stesso, un fato
che avvicinandosi sembra perdere ogni umana "sembianza"
fino a coprire senza scampo tutto il campo visivo. "L'aspra
tragedia de lo stato umano", svelatasi in tutta la
sua pienezza, non consente più fughe, o inutili rinvii,
e non resta altro che accettare dignitosamente la morte:
Così allora il Soldan vorria rapire
pur se stesso a l'assalto e se ne sforza,
ma non conosce in sé le solite ire,
né sé conosce a la scemata forza.
Quante scintille in lui sorgon d'ardire,
tante un secreto suo terror n'ammorza:
volgonsi nel suo cor diversi sensi,
non che fuggir, non che ritrarsi pensi.
Giunse all'irresoluto il vincitore,
e in arrivando (o che gli pare) avanza
e di velocitade e di furore
e di grandezza ogni mortal sembianza.
Poco ripugna quel; pur mentre more,
già non oblia la generosa usanza:
non fugge i colpi e gemito non spande,
né atto fa se non altero e grande.
Come si sa Torquato Tasso, ultimato il suo poema, fu colto
da dubbi sempre più assillanti: si convinse, o forse
altri lo convinse, che dare spazio all'altro corno della
contraddizione aveva significato dare spazio, e grande poeticità,
all'amor cortese e all'amore senza aggettivi, all'onore
cavalleresco e alla fama terrena, e inoltre e soprattutto
alla caducità della vita, e insomma a quei sogni,
per dirla con Shakespeare, della cui materia siamo fatti,
dopo e prima di un oscuro lungo sonno. E sono certo che
non sarà stato esente da critiche e ripensamenti
il mirabile lavoro condotto nella costruzione di personaggi
che, essendo nemici della fede, pur tuttavia rimangono nella
memoria di noi lettori come e più degli altri, perché
come detto incarnano altrove, ma liberamente, nobili valori
e grande umanità, come se il poeta, non potendo trovare
libertà nella storia, fosse andato a cercarla nella
geografia. E si sa anche che, in preda a forti squilibri
psicologici, e lungamente recluso, il poeta lavorò
a un rifacimento, quella Gerusalemme Conquistata
che, annullando il corno della contraddizione, e di nuovo
appiattendosi su una scrittura tutta dedita alla gloria
religiosa e all'insegnamento morale, tornò ad essere,
come tanti poemi del tempo, grigia e forzata, illeggibile
oggi come forse già allora. Ma come l'Eneide,
se è vero che fu salvata dal fuoco, anche la Liberata
si salvò, pubblicata all'insaputa e forse contro
la volontà del suo autore, e da allora rimane insuperato
esempio di come la letteratura possa interpretare le contraddizioni
del proprio e di ogni tempo.
Andrea Matucci (maggio 2016)
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