Precisazioni sul "Pasolini anni '50" (1)
Neil Novello, saggista che nutre uno specifico interesse
di studio per Pasolini, muove delle obiezioni (munite di
un titolo allusivo) al saggio di Andrea Matucci pubblicato
nel nostro numero precedente. Matucci replica e il confronto
diventa un foglio interessante di una sorta di Critica Comparata.
Il saggio in questione è Pasolini anni '50: passione
o ideologia, nella pagina di 'Critica'.
Neil Novello obietta
Pasolinologi o pasolinisti?
Distinguere per analogia la voce del narratore e la voce
del personaggio in Ragazzi di vita di Pier Paolo
Pasolini, mi sembra una tesi più ardita che distinguere
le due parti per differenza. Quando Matucci, nel contributo
critico dedicato a Pasolini e pubblicato su "Emèresi",
scrive che la "voce che racconta i Ragazzi di vita
è un'anonima voce del coro, che parla lo stesso linguaggio
dei personaggi", sembra porre sul medesimo piano linguistico
per l'appunto la voce-lingua del narratore e la voce-lingua
del o dei personaggi. Addirittura Matucci scrive che "niente
distingue la voce del narratore da quella dei personaggi"
(e le prove di oratio obliqua chi le rivela se non
la differenza culturale tra il narratore e i personaggi)?
In realtà, nel romanzo di Pasolini il narratore
attua un continuo e imperterrito lavoro proprio sul discorso
diretto. Anzi, io parlerei di un vero e proprio Kunstwollen
pasoliniano per l'oratio recta, che è lo stesso
desiderio che da Verga risale fino a Gadda o - si
voglia un altro esempio - da D'Arrigo a Occhiato. E il discorso
diretto in Ragazzi di vita - come per Dante che fa
parlare il letterato Brunetto Latini o l'eretico
Vanni Fucci in due lingue diverse tra loro, diverse
anche dalla lingua del poeta - è sempre differente
dalla lingua del narratore, e ciò per una questione
di mimesi per così dire con la lingua di classe
(di chi parla e di chi fa parlare), allo scopo di ricreare
la parlata nel realismo vissuto della classe
sottoproletaria. In Ragazzi di vita Matucci vede
invece il "culmine di un processo di totale osmosi
fra personaggi, narratore, ambiente e lettore", e anziché
ricercare differenze - riguardassero esse soltanto
le categorie di "narratore" e "lettore"
- scrive all'insegna del tout se tient, tanto che
risulta difficile soltanto da pensare un precipitato osmotico
nell'area testuale ("personaggi, narratore,
ambiente"), figurarsi immaginarlo in atto anche tra
l'area testuale e l'orizzonte per così dire
extratestuale, l'area del "lettore", anch'esso
ricacciato da Matucci dentro un'idea centrifuga della testualità.
Non meno equivoca nel contributo di Matucci su Pasolini
è l'idea critica riferita al "mondo [
]
di un popolo senza tempo", con la citazione di Le
ceneri di Gramsci (il poemetto Canto popolare),
nozione che Matucci utilizza già per Ragazzi di
vita, nel passaggio in cui scrive di un "mondo
senza tempo". E ancora più avanti, in finale
di saggio, nel luogo critico in cui aggiunge un ulteriore
riferimento a un indeterminato "mondo astorico"
di Ragazzi di vita. Locuzioni, queste, che lasciano
perplessi, se il privativo "astorico", come è,
significa alla lettera senza-storia. Se si pensa che il
contenuto reale di Ragazzi di vita non rinvia a una
fantasticheria né la lingua utilizzata (dal narratore
e dai personaggi) è altro da un marker sulla
collocazione storica di questo "mondo",
è difficile credere che Pasolini "scrive un
romanzo tenacemente ancorato alla proterva allegria di un
mondo astorico". E difficile è anche credere
che tale modello di pensiero (non di Pasolini, di
Matucci) sia veicolato dal discorso come un'acquisizione,
una maturazione poi sboccata nelle Ceneri di Gramsci
in cui Pasolini, secondo Matucci, si "incarica di attraversare
e documentare il doloroso percorso che porta proprio a quella
scelta", cioè il ritornante orizzonte del "mondo
astorico" in Ragazzi di vita.
Da tutto ciò nasce il sospetto di una lettura vissuta
da Matucci nell'idea di una narrazione destorificata, di
una poesia che testimonierebbe in Pasolini quasi la storia
interiore di una perdita di mondo (e di cui Ragazzi di
vita sarebbe testimone), così da intendere le
opere, che pure in tale eventualità resterebbero
ugualmente incardinate alla storicità, come
il capitolo letterario di una più generale storia
del folklore.
Andrea Matucci risponde
Nei Malavoglia, come ognun sa, la voce narrante
non appartiene a nessuna entità individuale riconoscibile,
è una voce corale, lontanissima culturalmente da
quella dell'autore, e assolutamente indistinguibile per
livello, ideologia, struttura linguistica (certo non è
dialetto, a questo penserà Visconti con La terra
trema), da quelle dei personaggi. È il narratore,
per intendersi fra esperti di teoria, che Genette (Figure
III) cataloga sotto l'etichetta "narratore esterno".
Pasolini riprende esattamente lo schema verghiano, senza
minimamente alterarlo se non per quello che nel mio articolo
ho definito gusto descrittivo, molto più esteso che
nel modello, e questo non stupisce e non ha mai stupito
nessuno, visto che Verga è citato esplicitamente
dagli scrittori neo-realisti (si veda Calvino, Prefazione
1964 al Sentiero dei nidi di ragno) come irrinunciabile
nume tutelare. Pasolini, fra questi, è forse quello
che più da vicino lo segue, anche per identica scelta
di vicenda ambientata in un mondo iper-popolare. Diversa
la scelta stilistica di Fenoglio nella Malora, ad
esempio, il che non toglie che il modello dei contadini
langaroli siano ancora i pescatori di Aci Trezza. Certo,
siamo ad Aci Trezza, verso il 1866, si sa, il che non toglie
che quei personaggi e quel mondo siano fuori dalla storia,
e il che non toglie che l'idea trasmessa da Verga (conservatrice
per non dire reazionaria, se si vuole) è che i suoi
personaggi, da padron 'Ntoni in giù, rimarranno puri
finché dalla storia rimarranno appunto fuori, perché
la storia porta conflitto, invidia, ambizione, falso progresso
e snaturamento: è la "fiumana" per la quale
si veda la Prefazione agli stessi Malavoglia. La
storia arriva da fuori, come la malaugurata chiamata di
leva della seconda guerra di indipendenza, e la storia è
fuori, dove alla fine 'Ntoni andrà a perdere la sua
purezza originaria e rimarrà incapace di tornare.
Non vedo diversità con i Ragazzi di vita,
che vivono in una Roma perfettamente datata, è ovvio,
ma che sono, loro e le loro borgate, fuori, orgogliosamente
fuori dalla storia e dalle problematiche sociali, di sviluppo
o di organizzazione, che anche qui arrivano da fuori, magari
sotto forma di camionette della polizia intese a stroncare
traffici illeciti o gioco d'azzardo. Tutto il romanzo è
un inno a un mondo allo stesso tempo datato e astorico,
alieno dalle "magnifiche sorti e progressive",
come la Sicilia di Verga, ed è come se quel romanzo
nascesse dopo che la contemporanea poesia delle Ceneri
abbia fatto piazza pulita di ogni storicismo ideologico
(o meglio ideologia storicista). È anche quella di
Pasolini una posizione conservatrice, per non dire reazionaria?
Difficile ammetterlo: Verga era un inguaribile aristocratico,
mentre Pasolini era e si dichiarava marxista. Ma da questa
e da altre contraddizioni mi pare nasca l'irripetibile originalità
e non classificabilità della sua figura.
(Marzo 2016)
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