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Critica

Tradurre per invidia
Sereni sulla via di Char

 

Empaticamente eloquente, in un breve ma circostanziato saggio Neil Novello interpreta il significato intimo che l'attività di traduttore ha avuto per Vittorio Sereni, con riferimento specifico alla altrettanta empatia del poeta italiano verso il francese René Char.

 


di Neil Novello

 

Del tradurre e sul tradurre poesia da parte di Vittorio Sereni, nella Premessa al Musicante di Saint-Merry (1981, titolo colto in Apollinaire), il suo libro-di-traduzioni, il lettore incrocia un pensiero, per così dire, barthesiano, da «plaisir du texte»: «Tradurre non è mai stato per me un esercizio. Qualche volta una fatica, più spesso un piacere. Dell'esercizio ha avuto semmai qualche effetto benefico a cose fatte, dico in senso prevalentemente psicologico»[1]. Oltre l'«esercizio», di là della «fatica», il «piacere» è dunque un emblema perché risolve, nella sua informe globalità, la crisi d'esprimibilità interna e annessa alla poesia-da-tradurre. E il ricavo del «piacere» si addensa, intero e fiorente, in un'inattesa e icastica elaborazione: il timbro della serenità. Che è anzitutto ricavo «psicologico», oltre ogni altra cosa esso è marchio non già d'autore, è marchio di poeta: è una traduzione di Sereni.
«Non ha alcun interesse per me il "problema" della traduzione letteraria» è confessione che scavalca pertanto l'intoppo del mestiere per esprimere il «pathos», l'«eco», la «ripercussione», l'«infatuazione», la «svolta squisitamente soggettiva» dell'esperienza: è già quasi un passo nell'esperienza umana del tradurre. Trapiantare una nuova lingua significa permettere alla poesia tradotta di vivere un'altra vita.
Per correre più rapidamente al cuore del discorso, si potrebbe senz'altro affermare che Sereni si trapianta: a Julien Green, a Paul Valéry, ad Ezra Pound e Williams Carlos Williams, ad André Frénaud, a Guillaume Apollinaire, ad Albert Camus e al latino di Fernando Bandini, a Pierre Corneille, le «"persone poetiche"» per Mengaldo. Soprattutto però Sereni va verso il trapianto (un espianto-trapianto) nella poesia di René Char: la traduzione di Feuillets d'Hypnos (1968, già compiuta per altra sede nel 1958), di Retour amont (1974), e del doppio, antologico tempo del Musicante. Qui è attuata una scelta da Feuillets (cinque tratti), letto per intero nella raccolta Fureur et Mystère del 1948, e diciassette poesie prese da Retour e lette in Le nu perdu del 1971 e La nuit talismanique del 1972. In testa, Déclarer son nom è colta da La parole en archipel, il libro chariano del 1962.
Tanto più per la traduzione di Char, il principio della resa poetica implica in Sereni anzitutto una scommessa di eleggibilità per auto-leggibilità: clamoroso è il caso resistenziale di Char, Feuillets d'Hypnos. Un astuto critico della traduzione sereniana come Fortini vi legge l'evidenza in boccio della «possibilità mancata», della traduzione da intendersi come compenso a un vuoto d'esperienza esistenziale, anche di là del trauma personale, per Sereni rifluito e mai più esaurito nel cahier de doléances poetico di Diario d'Algeria. Anzitutto, dunque, la vita, più precisamente - come si legge nella nota al ciclo Traducevo Char di Stella variabile - points d'or, «momenti di vita» da disabissare o in cui inabissarsi per eccesso d'«investimento anche emotivo», per l'«emotività» confessata nella Premessa al Musicante. E anche per una forte tensione pre-culturale, nudamente venuta dall'umano: cogliere nella vita dell'altro ciò che la propria avrebbe-potuto-essere, supplire all'horror vacui annettendosi l'altro e la sua vita migrata in poesia e fatta ri-migrare, «eco» a redenzione, nella traduzione. Di là di Feuillets d'Hypnos e Retour amont, uno scrutinio provvisorio dei testi tradotti basterebbe per comprendere che l'eletto del Musicante è il poeta-contadino dell'Isle-sur-la-Sorgue. Eppure nulla da spartire, in apparenza, tra la poesia ascensionale e arborescente o - come scrive Starobinski - al «sollevamento della parola» in Char rispetto al circolo occlusivo e panico di Frontiera, alla coatta, stazionaria calma di Diario d'Algeria, al ritorno-fuga di Strumenti umani, al mortifero presente di Stella variabile, alla dimensione tutta terrestre della poesia di Sereni. E così non nel «sollevamento» che occorre riconoscere il desiderio sereniano di Char, bensì nel tentativo d'elaborazione dell'invidia, Char ovvero il cantore della Resistenza francese anti-nazista, Sereni per altro destino insabbiato nell'afa senza azione del Diario algerino. Non per nulla, nella Premessa al Musicante il poeta dapprima confessa che il «"vizio impunito" (almeno fino a quando non diventa pubblico) che è il tradurre, nasce nel vuoto lasciato dalle poesie che non si sono scritte, o che non si riesce a scrivere», di seguito per s-velamento: il «moto di invidia».
Una linea del sangue, una linea di liquidità ematica tuttavia scorre da Char verso Sereni: il traduttore che traduce si sottopone a micro-trasfusioni, il traduttore-vampiro invoca il plasma dell'altro. E tradurre significa assorbire e nutrirsi, farsi del sangue confratello di sangue. È terribile sapere che il mito resistente del «grande amico» è forare la vena. E venalità dell'amicizia. Tradurre Char è chiedere al poeta del Vaucluse di farsi effigie di una realtà di vita pensata, protestata, agognata e mai raggiunta dal poeta di Luino. Da «respinto» a «oscuramente affascinato» dalla poesia di Char, Sereni ingaggia una lotta titanica. La traduzione è un cammino nel mistero: il sangue filtra senza trasferirsi da corpo a corpo, il sangue filtra e solo per con-fondersi.
Nella Prefazione al cosiddetto «saliente nella poesia francese di questo secolo», i Feuillets, Sereni coglie forse l'irriducibile Urphanömen destinato a ostacolare l'atto di interpretazione. E a inibire del tutto l'atto di traduzione, a comprometterne e forviarne la ritenzione poetica: il veleno iniettato dal «suo moto d'origine nascosto e dal suo sbocco sulla pagina» vale quasi la puntura venefica di un animale astrale, che colpisce, immobilizzando, alla morte. L'errore pertanto sta nell'interpretazione, il siero invece nella traduzione: se anche interpretare è profano, tradurre è sacro. E non si può che solamente tradurre. Ma la traduzione è come il prodotto di un intorpidimento, tant'è che non si dà «quello scampo o quel recupero che la densità o l'estensione di tanti altri testi consentono di volta in volta all'operosità del traduttore». Se è vero che Char non «scrive», bensì «trascrive» i Feuillets, altrettanto vero è che il traduttore «esitante» - e Char realmente ha trascritto o riscritto i Feuillets nascosti-ritrovati in un muro a Céreste - anziché tradurre può soltanto servire un testo altrimenti introvabile, testimoniando per così dire l'inattingibile. Ecco dunque che il lettore, ancorché il traduttore tradito, è costretto a dislocarsi, «a spostarsi su un territorio diverso da quello sul quale normalmente si appresta a cogliere il frutto tangibile del fare poetico».
Lungo l'orbita del tradurre, un bivio segnala l'uscita per la Via Lattea: per questa via però non si traduce nulla, è la via dell'intraducibilità, il segnavia reca la scritta perdersi. È un altro regno: si va verso la Poesia tolta alla Poesia intraducibile. Accade a Celan con Char. Ma accade raramente. E negli Appunti del traduttore a Retour amont, da traduttore traduttologo Sereni isola la parola «retour» indicando nel «maquis», la macchia come condizione umana della vita partigiana, non già il Luogo, bensì il nudo vivere come Locus: Retour amont, anche qui un ritorno al perdersi. Ritornare alla nudità, ritornare a cogliersi Urphanömen, per Char significa dislocarsi (Sereni: «Un Golgota, una via sicura, un itinerarium mentis: il Retour amont come una via crucis»), per il traduttore altro non è che inseguire il poeta: da Ladrone buono. «Amont» pertanto «tende all'invisibile o piuttosto onnipresente e non localizzabile "amont"», per l'appunto.
Tradurre è così esperienza di due, il poeta-Cristo e il Ladrone-traduttore in cammino verso tutti i Golgota del mondo, verso il Locus: «La linea di demarcazione, instabile, sfuggente, è il "luogo" dove si forma la poesia». Pensando a La parole en archipel, lungo la Via Lattea come lungo la «via crucis», Sereni coglie per così dire il codice genetico della poesia chariana quando scrive che la «parola ha rincorso le "verità" balenate, cioè intuite» e pur non essendo Char al «traino di quelle "verità" il "fare" poetico ne è al tempo stesso lo strumento e il luogo della scoperta vissuta e patita». Che vuol dire accettare un paradosso: camminare lungo l'orbita della vita e insieme stare nel suo Omphalòs, in uno, virare intorno e posare al centro, essere il traduttore ed essere il poeta.

 

[1] Con qualche lieve variazione, si ripropone uno scritto comparso nel numero di rivista "Materiali", n. 3 (2007), intitolato La soglia sull'altro. I nuovi compiti del traduttore.

 

Neil Novello (in Emèresi a febbraio 2017)

 

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