Da una concezione dell'opera testuale e della sua centralità
nel fenomeno letterario, all'esame dei ruoli critico e teorico
e del fruitore, un tentativo di ricapitolare le condizioni
d'emergenza avvertite per la letteratura del post-modernismo
e di ipotizzarne una via d'uscita.
di Luigi Arista
Le concezioni dell'arte sono figlie della storia, così
come gli artisti e le opere d'arte sono figli della storia.
Ma c'è qualcosa che affascina nei risultati artistici
di sempre, e quella cosa rende l'arte capace di sopportare
ogni concezione, e quindi di esserne libera e, in fondo,
diversa, mai definibile completamente. Su quella relatività
e quella incompletezza delle tesi estetiche, a noi non resta
che aggiungere ogni volta un piccolo contributo per formare
una "immagine" dell'arte, una "supposizione"
della sua realtà inerente alla storia.
Così pure, oggi abbiamo secoli di teoria letteraria
alle spalle, dalla Poetica di Aristotele alla precettistica
retorica che da Orazio attraversa il Medio Evo culminando
nel Rinascimento e nel Seicento e tenta di riproporsi tre
secoli dopo, all'idea del Sublime che nel classicismo latino
metteva al centro l'esperienza soggettiva e torna nel modernismo,
e in special modo alla rivoluzione del Romanticismo, da
cui soprattutto, transitando per l'estetismo, al XX secolo
con l'estetica dell'intuizione e quella dell'inconscio censurato,
la morte dell'autore e l'autorialismo, lo strutturalismo
e la letterarietà dell'opera, l'ermeneutica fra chiarificazione
e interpretazione creativa, la teoria della ricezione e
la preponderante figura del lettore, il decostruzionismo
come indeterminatezza del testo, fino alle problematiche
dell'identità, della multiculturalità e dell'estetizzazione
di ogni prodotto culturale, mediatico, oggettuale e corporale
nei consumi e nei comportamenti di massa. Ma, come forse
si evince dalla carrellata appena fatta all'uopo, che indica
solo un riflesso del caleidoscopio teorico, di cui da un
certo momento è complicato perfino dare un ordine
dei tempi, oggi c'è un problema: dopo aver riflettuto
su innumerevoli aspetti della letteratura, tanto da saperne
ormai molto, ci ritroviamo piuttosto frastornati e anche
confusi da quell'abbondanza di pensiero, giunto com'è
a "teorizzare la teoria". Ne parlerò più
avanti per cenni minimi e sparsi, teorizzando ancora un
po' con l'intenzione di raccapezzare il punto della situazione
per mio conto.
Comincio da quella che personalmente avverto come una necessità:
ripensare la nascita di un'opera, visto che giustappunto
la teoria post-modernista vi prescinde. Dico perciò
che secondo me l'opera letteraria trae origine da un'urgenza
espressiva immotivata e irrazionale (un amico letterato
la chiama il big bang) che avviene tutta interna a se stessi.
Si tratta della tensione interiore a un discorso non palese:
l'autore sperimenta nel retroscena della mente il sopraggiungere
di un discorso linguisticamente ancora impreparato, lo sperimenta
in un modo ancora indefinito che diventi la forma corrispondente
all'espressione del discorso.
Ho sempre pensato, cioè, che la germinazione dell'opera
sia un'aurora espressiva libera dall'intenzione di comunicare.
Ma non mi riferisco né alla formula (endiadi) crociana
intuizione-espressione né a nessuna estetica espressionista
né a quella psicanalitica; intendo solo dire che
nel sentirsi impegnato a scrivere vi è per l'autore
un motivo auto-riflettente prima che ostensivo. Già
in un mio libro, un saggio sulla poesia che poi tolsi dalla
circolazione e che oggi riscriverei in un altro modo, presumevo
l'esistenza di un Homo signans quale uomo che "realizza"
in sé le cose del mondo dando loro dei segni, che
anticipa il tipo Homo significans definito dalla
semiotica come il costruttore di significati attraverso
segni. Questa gerarchia del processo cognitivo a me sembra
tanto ovvia quanto la convenzionalità di un sistema
linguistico: poter significare dipende dai segni che sono
diventati "realizzazione" (comprensione) di cose
nel sistema.
Dopo di che, c'è un secondo passo nella creazione
di un'opera, quello fattivo, allorché la tensione
espressiva si risolve in "atto" espressivo e diventa
auto-comunicazione. Si tratta della formalizzazione, che
implica un procedimento di comunicazione, sì, ma,
come nell'aurora iniziale, interno a sé. Ovvero,
il sé dell'autore è il primo lettore, o sdoppiando
in figure l'autore, accanto al suo Scrittore siede il suo
primo lettore mentre scrive (lo chiamo Lettore Interno).
Per spiegarmi adottando la comune dualità di contenuto
e forma, distinguo lo Scrittore e il Lettore Interno che
lavorano insieme, l'uno sulla materia del discorso che via
via diventa contenuto e l'altro sulla visione del discorso
che via via diventa forma, cercando l'appagamento espressivo
dell'unità autoriale. Allora nello scambio fra i
suoi agenti interni l'autore sarà convenzionale o
sovversivo, o intermedio fra le opposte tendenze, in base
al suo sentimento estetico, cioè al suo rapporto
di rispetto o ampliamento o rinnovamento del sistema dei
concetti e delle forme. E dico che contenuto e forma "diventano"
e fino al termine non "sono" perché durante
quel lavorio molte volte la formalizzazione elabora la forma
di dettaglio secondo il contenuto e spesso elabora il contenuto
di dettaglio per ottenere la forma. È un tale intreccio
che realizza la sintesi unitaria, cioè, ricomponendo
la dualità in un'endiadi contenuto-forma, il contenuto
che si guarda nella forma e la forma che si guarda nel contenuto.
Avviene così: parola d'autore.
Invece, la prevalente, se non unanimemente condivisa, tesi
che l'arte nasca come modo speciale di comunicare considera
la formalizzazione letteraria come un atto che l'autore
compie sotto l'effetto di una relazione virtuale fra sé
e chi leggerà il suo testo. Sarebbe a dire che egli
immagina il suo presunto lettore reale, che la semiotica,
in particolare nelle parole di Eco 1979, definisce Lettore
Modello: colui il quale viene inteso «capace di cooperare
all'attualizzazione testuale come egli, l'autore, pensava,
e di muoversi interpretativamente così come egli
si è mosso generativamente». Questa versione
dei fatti non sembra sempre vera, se prendiamo in esame
poeti come Mallarmé, che non si occupava di una contingente
referenza interpretativa, notoriamente convinto che al lettore
spettasse decidere se assecondare o «salutare»
(congedare) le regole della «suggestione» poetica
(vedi gli scritti teorici e le lettere), o prosatori come
Kafka, che non scrisse mai nulla di teorico ma dai cui testi
limpidi emerge tuttavia una poetica fondata più su
enigmi interpretativi che sulla cooperazione del lettore.
Comunque, nella mia tesi vige eminentemente il Lettore Interno
di cui ho detto, ma se l'autore è portato a istituire
una relazione immaginaria di confronto esterno, trovo semplice
ammettere anche l'attività contestuale del Lettore
Modello, salvo specificare che mentre la semiotica vede
tale figura come alter ego dell'autore, quindi suo
unico interlocutore, io lo ammetto come alter alterius.
Questa ulteriore presenza virtuale può essere facile
da gestire o aprire contenziosi con il Lettore Interno,
comportando minori o maggiori compromessi nel risultato
conclusivo.
D'altronde occorre dire che, poiché basata sul rapporto
col sistema dei concetti e delle forme, la formalizzazione
rappresenta sempre un tipo di rapporto dell'autore con il
mondo. Quello che non si occupa della condivisione interpretativa,
se da un lato distanzia il mondo, dall'altro scrive ritenendo
di intervenire su di esso, e colui che se ne occupa scrive
pensando di parteciparvi confacentemente, entrambi tendendo
a riconoscersi in una parte dello stesso mondo. In questo
senso, Lettore Interno da solo o col Modello, l'autore sceglie
liberamente scrivendo. È poi la vittoria, l'appagamento,
la convinzione finale maturata nel confronto scelto a rendere
il sé autoriale pronto a esibire l'opera.
Ora, quando avviene la pubblicazione, l'opera dà
luogo a un evento sociale, è definita ma sottoposta
al gusto altrui, alle attese altrui, alla critica altrui,
al significato che ha per altrui. La poetica dell'autore,
e di questi anche l'estetica implicita o esplicita nell'opera,
si espone all'estetica letteraria sociale e al pensiero
che ne parla.
A me pare importante concepire l'opera così, perché
significa un certo modo di pensare l'evento artistico e
un certo modo di parlarne. Così si può capire
che se l'opera tutta fosse solo istanza di comunicazione,
l'arte non susciterebbe il fenomeno straordinario a cui
partecipiamo. Noi nell'arte non proviamo soltanto l'emozione
di un contenuto informativo eclatante o commovente o suggestivo.
La stessa emozione la proveremmo, per esempio, nel contenuto
informativo di una cronaca coinvolgente, ma il contenuto
della cronaca, una volta acquisito, lo metteremmo da parte
fra i dati ordinari della memoria. La sostanza formale dell'arte
invece fa la differenza. Infatti noi non ci stanchiamo di
rileggere più volte la sua informazione, non ce ne
annoiamo. Perché?
Rispondendo al perché, io mi raffiguro un fenomeno
così: l'opera d'arte sposta il processo cognitivo
della lettura da una funzione di "acquisizione"
di informazioni (motivo della comunicazione) a una funzione
di "generazione" di significati (ragione dell'espressione),
generazione che riattiviamo a ogni lettura anche se l'informazione
è la medesima. Ed ecco, è questa eccitazione
dell'attività inventiva, per dirla linguisticamente
del rinnovamento del significante, che ci attrae nell'arte.
Faccio un esempio non di letteratura: se nel film Mamma
Roma di Pasolini, noi guardiamo più volte la
scena di Ettore legato al tavolo di contenzione, con l'inquadratura
che replica la figura del Cristo del Mantegna (Pasolini
ebbe a ridire che evochi il Mantegna, ma qui lo dico per
capirci) e poi si allarga alla cella, mentre la colonna
sonora intona l'inizio del Concerto in Sol minore per Oboe
di Haendel, noi tutte le volte intenderemo dramma e triste
povertà e passione umana, intenderemo ogni volta
le stesse cose, ma anche se quelle cose saranno state già
acquisite, rivedere la stessa scena riattiverà la
dimensione inventiva e sarà come acquisirle di nuovo
con lo stesso pathos.
È ovvio pensare d'altronde che la funzione di generazione
di significati sfrutti la memoria dei dati acquisiti, come
nella produzione metaforica. Ed è altresì
facile capire che i significati dell'arte avvolgono entrambi
i modi della conoscenza, intellettivo e sensibile. E dunque,
se l'arte non procurasse quella specie di continuata malia
sulla creatività umana, l'opera non sosterrebbe tanta
rilettura e tanta interpretazione, che talvolta o spesso
scoprono, nel senso che acquisiscono, nuovi possibili significati
in più. Nell'esempio della sequenza di Mamma Roma,
le riletture potrebbero aggiungere una volta disperata solitudine,
un'altra volta gioventù prostrata, e poi ancora frustrata
ribellione, e forse altro. A quest'ultimo riguardo potrebbe
sorgere la domanda: quanti significati ammette l'opera,
un numero indefinito? Più avanti dedurremo che lo
stabilisce l'opera stessa.
Spero sia chiaro, però, che non sto proponendo un
ritorno al testo chiuso e assoluto nei suoi significati.
Ripropongo piuttosto la centralità dell'opera nella
sua capacità generativa; rifletto sull'eccesso di
importanza data a tutte le proiezioni sociali e antropologiche
degli atti di scrivere e di leggere. Sottolineo semmai che
senza l'opera ogni altro ragionamento è astrazione.
La lettura, la declamazione, l'interpretazione, la trasposizione,
la recitazione sono tutti momenti inventivi e performativi
che danno esecuzione all'opera; però l'opera è
il risultato dell'atto creativo originario che stimola tutti
i successivi. È indubbio che l'opera diventi arte
nel momento della sua relazione con l'esterno, ma se presso
l'esterno il fenomeno estetico accade, è grazie alla
fattura dell'opera, grazie a quel big bang affascinante
che nell'artista era sorto come urgenza immotivata e ha
preso corpo nel parto della formalizzazione. L'opera è
ciò che del fenomeno artistico permane, rimane per
rinnovarlo, e che rimane nella nostra storia estetica.
Perciò, oggi che, grazie alle tante filosofie e teorie,
tutti hanno ottenuto il riconoscimento del proprio ruolo,
non solo tutti gli attori del fenomeno letterario ma anche
le tipologie di attori secondo le differenze di identità
(di genere, sessuale, razziale, etnica, nazionale), sembra
opportuno che i nostri pensatori e studiosi ripuliscano
e rimettano in ordine la casa in crisi ritornando alla priorità
dell'opera.
La teoria per prima dovrebbe ri-stabilire la sua funzione.
Che cos'è la Teoria? È quel pensiero in parte
speculativo e in parte scientifico che durante il Novecento
si è distaccato dall'Estetica, la quale alle soglie
dell'Ottocento si era separata dalla Filosofia diventando
autonoma riflessione sul poetico e sul bello? Dopo quel
secondo più radicale distacco, qual è ora
il vero istituto della Teoria?
Chi ne ha seguito un po' il corso, si è accorto che
dopo lo strutturalismo, che si sarà anche arrogato
una pretesa assolutezza del metodo per stabilire il bello
della "letterarietà", vi sono state reazioni
a contestarlo su più fronti e per diversi scopi.
Un primo fronte di matrice ideologica, che si aggirava ancora
intorno alle idee del modernismo, si esprimeva in termini
già piuttosto variegati (il rispecchiamento realistico
del momento storico, la prassi che libera dalla repressione
sociale, l'autonomia dall'utile del mondo empirico e di
ogni prassi, l'allegoria che sempre risveglia le forze assopite)
ma verteva all'obbiettivo comune di considerare la "strategicità"
(politica) della letteratura e della dimensione estetica.
Poco avanti, si può dire dagli anni '60 in poi, un
secondo fronte si opponeva allo strutturalismo per negare
stavolta l'essenzialità dell'opera nella comunicazione
letteraria. Quella reazione, veemente, ha prodotto un ampio
delta di fiume delle posizioni di pensiero in tutto simile
alla complicata articolazione sociologica, culturale e ideologica
del mondo definito post-moderno. La sua abbondanza è
stata come voler dire che non c'è niente di scontato;
ma quando non c'è niente di scontato, cioè
quando non c'è nessuna connessione fra il predisposto
delle idee e il cambiamento di prospettive culturali, allora
è caos; allora è crisi fino giù giù,
dai ranghi intellettuali attraverso la testa delle persone
nella politica, l'ultimo gradino dove sbatte il caos e rimbalza
in su mettendo in crisi i criteri di regolazione delle strutture
sociali. Ma per carità qui non si vuole parlare di
politica. Piuttosto si voleva concludere circa l'argomento:
ora, sarà stato ammissibile che nella complessità
del post-moderno i compiti di una teoria come "Poetica
generale" fossero aumentati a porre nessi fra la letteratura
e le differenze interne al "nuovo mondo"; il problema
è che di tali nessi vi è stata la deriva verso
una sorta di "antropologia letteraria" sempre
più lontana dal carattere militante della critica,
che poi vuol dire intrinsecamente dalla letteratura, visto
che la critica ne è l'analisi di senso e di valore.
Quanto a una "crisi letteraria", ci troviamo
di fronte a una situazione paradossale. È vero che
nell'ultimo cinquantennio la letteratura ha perso ogni centralità
nel sistema sociale delle arti, surclassata dal cinema e
dall'ibridazione di musica e immagini del "video",
ma nel frattempo si è diffusa nel privato una tendenza
alla scrittura che spesso aspira a elevarsi dall'ambito
della privatezza all'esibizione pubblica e a qualche livello
di notorietà. Così oggi, oltre alle scritture
in vetrina grazie al marketing della grande industria editoriale,
vi sono un'altra enormità e un'altra varietà
incredibili di scritture, sommerse nelle sconosciute edizioni
a pagamento e nella rete. Ebbene, ciò vuol dire che
nell'immaginario contemporaneo frammentato e polimorfico,
anche se fra molta banalità e ripetitività,
c'è comunque materiale per esercitare la funzione
critica. Sembra cioè che l'attuale evanescenza della
letteratura non ne annunci proprio la fine; si tratta invece
di cercarla in quel labirinto nella sua latenza, nelle sue
elaborazioni e potenzialità. E questo richiede che
il critico sia attivo, oltre che nel diletto con le letterature
del passato, nell'incombenza di cercare e individuare eventuali
promesse o, se lo fossero, impreviste realtà di fatto.
Ma sul ruolo della critica bisogna svolgere delle altre
considerazioni. Si diceva che l'opera diventa arte nel momento
della sua esecuzione da parte dei lettori. Per la letteratura,
questa moderna consapevolezza ha indotto molti teorici a
rifiutare l'idea formalista-strutturalista di una specificità
letteraria, o letterarietà, sostenendo l'ineludibile
soggettività del giudizio. Ora, la teoria ci ha insegnato
anche a considerare l'arte come una convenzione, nel senso
della sua relatività temporale e spaziale di tradizioni
e canoni. Ma se assecondiamo troppo l'idea della soggettività
del giudizio, allora incorriamo nel fallimento della stessa
idea di convenzione artistica: non ne esisterebbe una in
cui, sotto le stesse coordinate di tradizioni e canoni,
per la stessa opera vi fosse un numero illimitato di versioni
di essere arte. E qui approfitto soltanto di un appoggio.
Eco, il cui noto volume Opera aperta (1962) aveva
perfino dato nome a una categoria estetica, chiarì
bene il senso dell'invito alla libera fruizione del testo
letterario (1990): «Trent'anni fa [
] mi preoccupavo
di definire una sorta di oscillazione, o di instabile equilibrio,
tra iniziativa dell'interprete e fedeltà all'opera.
Nel corso di questi trent'anni qualcuno si è sbilanciato
troppo sul versante dell'iniziativa dell'interprete. [
]
il testo interpretato impone delle restrizioni ai suoi interpreti.
I limiti dell'interpretazione coincidono con i diritti del
testo».
Non si può che concordare. È pur vero che,
dai menzionati simbolismi mallarmeano e kafkiano a gran
parte della letteratura contemporanea sono gli stessi autori
a esaltare l'ambiguità dei testi favorendo una ricezione
polivalente. Bene, si tratta di poetiche, ma tale circostanza,
innegabile, non vincola, ovviamente, uno schietto lavoro
di interpretazione e giudizio di tutte le opere alle intenzioni
di alcuni o molti autori. La schietta realtà di quanto
Eco diceva, che è l'unico scioglimento del problema,
riguarda i diritti del testo, cioè che in teoria
l'interpretazione e il giudizio sono un numero indefinito,
ma l'opera resta il riferimento con cui misurare l'attendibilità
delle sue interpretazioni. Ecco quindi ancora la centralità
dell'opera. Ma ecco anche nello stesso momento che la convenzione
letteraria ha bisogno di una funzione autorizzata al discrimine
del senso e del giudizio, e questa funzione è la
critica pratica, che dovrà dimostrarsi attendibile
sull'opera.
È per tale motivo che il critico possiede, almeno
in linea di principio, competenze diverse da quelle del
generico lettore. Ora però vorrei chiarire che parlando
di generico lettore, qui intendo il soggetto appartenente
al pubblico, e credo non si possa smentire che oggi, almeno
per la letteratura come per il cinema e la televisione,
la definizione di pubblico non connota più categorie
di cosiddetti appassionati o cultori o intenditori, qualificate
per sensibilità o attitudine o studio, ma implica
il significato della "massa", cioè di quella
grande collettività contenitore di soggetti indistinguibili,
la cui caratteristica è l'intrinseca medietà
del profilo culturale e dell'autonomia intellettuale. E
allora, dico che quel pubblico può decretare il "successo"
di un testo scritto (come di un film o di uno spettacolo
televisivo), ma non lo "qualifica" dal punto di
vista letterario. Il successo pubblico non discrimina né
senso né valore: come se ne dimostra l'attendibilità
rispetto all'opera? Non sto dicendo che un'opera non è
fatta per il pubblico e che non diventi arte nella fruizione
di soggetti del pubblico. Dico che il pubblico, nella sua
medietà di massa, non si orienta fra mappe di poetiche
passate e presenti, non programma le letture, non le accompagna
a esami di approfondimento testuale, è fortemente
legato ai canoni e se ne disancora dopo molto tempo dall'evoluzione
letteraria. Dico che il pubblico di massa cerca nella letteratura
i soli orizzonti di piacere e coinvolgimento del contenuto
informativo, non avendo dimestichezza con gli stimoli del
messaggio estetico (per esempio, nella narrativa è
come concentrarsi sulla "storia" narrata trascurando
il "modo" narrativo). Dico infine che oggi, in
un mondo tutto estetizzato in superficie, dalle scritte
sugli abiti ai tatuaggi sulla pelle, dalle forme di propaganda
delle merci alla spettacolarità di contorno agli
eventi, il pubblico, stordito, risponde all'opera dal filtro
del senso estetico e delle induzioni culturali della comunicazione
di massa.
La mia sottovalutazione della facoltà critica del
pubblico di massa può apparire una posizione aristocratica.
Al contrario, penso che una via d'uscita dall'emarginazione
della letteratura possa cominciare proprio dalla rinuncia
all'aristocrazia critica e teorica. Ovvero lo studioso (meglio
se lo stesso nei due ruoli) dovrebbe rinunciare al modo
gergale e sofistico con cui frequentemente comunica, che
pare comunicare esclusivamente con altri specialisti e iniziati
del settore; dovrebbe poi rinunciare a pronunciarsi solo
nel parnaso librario per entrare anche nel mondo della rete
(media ormai potente quanto la televisione), con strumenti
propri o istituzionali o di terzi; dovrebbe così
rendersi disponibile a un servizio di educazione letteraria,
a partire da questioni basilari, accessibile e di vasta
portata pubblica; potrebbe infine rendersi disponibile alla
ricerca di voci letterariamente sostenibili nella foresta
della "folla che scrive" (ancora la rete e l'editoria
sommersa). L'istituzione scolastica dovrebbe fare il resto,
rinunciando alle estreme specializzazioni (poiché
in realtà è il lavoro che le forgia) e curando
invece meglio la preparazione umanistica dei giovani, ma
questo è un altro complesso discorso che esorbita
da qui.
Luigi Arista (novembre 2016)
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