La recensione della silloge di Matteo Veronesi Tempus
tacendi. Una selezione di poesie è pubblicata
alla pagina di Letteratura (con dettagli sul libro).
di Andrea Matucci
Come rimanere indifferenti di fronte alla evidente, e palesemente
cercata, contrad-dizione fra il libro e il suo titolo? Tempus
tacendi? Ma le pagine che seguono non sono certo bianche.
Dunque? Dire tacendo? O dire nonostante, e forse proprio
perché è tempo di tacere? Ma a queste, e a
mille altre domande puramente astratte che potrebbero nascere
dalla sbandierata contraddizione, subito inizia a rispondere,
come era prevedibile, il primo testo della raccolta poetica,
al quale la presentazione in corsivo conferisce, montalianamente
in limine, una funzione introduttiva dell'intero
percorso. I poeti, qui si dice, sono solo una "franta
semenza", saranno presenti al mondo, forse, solo post
mortem, in una futura "eterna assenza": all'inizio
i versi sono brevi, staccati, cadenzati, liberi, ma nobilitati
dalla rima - ah, la vecchia cara rima - che riveste di eleganza
il senso di una disperata inutilità. È dunque
tempo di cantare - ecco subito la definizione per opposto
del titolo - ma solo per se stessi, forse per pochi, forse
per nessuno, il canto cadrà nel buio, in un mondo
di morti, in un "sacro vuoto": ma la poesia è
comunque "pienezza", in assonanza con le precedenti
rime, una pienezza che si esprime, proprio al centro del
breve primo testo, nella piena e sonora esplosione del vecchio,
caro, nobile endecasillabo: "per noi soli, per pochi,
per nessuno", al quale altri classicamente perfetti
versi seguono, fino al "immolare / al sacro vuoto la
nostra pienezza". Il senso delle parole, e la ragione
che lo guida, sono ben consapevoli della solitudine del
poeta, del buio e dell'incomprensione che lo circonda, della
vanità di una voce inascoltata, dell'indifferenza
del tutto, anche "oltre, in altro evo"; ma il
suono ribattuto di quelle stesse parole, e il loro disporsi
quasi istintivamente in blocchi e ritmi di pura poesia,
sotto la guida di una insopprimibile liricità emotiva,
esprimono altro, contraddicono il tempus tacendi,
e mantengono alta la fiducia nell'inalterabilità
e nell'intima necessità della voce poetica.
Se questo è il limen, il percorso che segue
è coraggiosamente coerente: una serie di testi senza
titolo, divisi solo per impaginazione, quasi un lungo ininterrotto
poemetto fermo in una volontà tematica generale di
metapoesia, un fare poesia, cioè, per chiedere e
affermare il senso di quello stesso fare, come in un doloroso
preambolo al se, al come, al perché dire in poesia,
oggi, e non tacere, anche dopo il nulla e nel nulla che
circonda l'albatro costretto a terra. Tempus flendi?
Forse, ma si salvi almeno la drammatica bellezza del pianto,
orgoglio e speranza di quei (felici?) "pochi",
che di pianto sono capaci. "Odio", dunque, "la
gloria pura della luce", dice il poeta, odio "la
natura più vera / e viva di un dipinto, il riso chiaro
(
)", perché so che dietro le "grandi
albe miti (
) piene di luce / e sorrisi, e profumi,
e colloqui tenui" c'è "questo nero abisso",
celato solo da un labile "chiarore": ma quanta
amabilità in quel ritmo bisillabico - sempre caro
mi fu -, quanta dolcezza in quei "colloqui tenui"
in cui il suono cupo della "u" scivola leggero
sulle ali della memoria. Leopardi, certo. Leopardiano è
il coraggio di denunciare la vanità del tutto, e
le illusioni del mondo; leopardiano è l'ascolto,
senza infingimenti, del proprio pensiero negativo, e l'accettazione
di un disperato nichilismo privo di alternative; ma leopardiano
è, soprattutto, se l'uscir di pena è diletto
fra noi, l'affidare alla poesia la pena ma anche il diletto,
l'unire la dimensione del "vero" a quella del
"bello", e in qualche modo il contraddire dunque
il non negabile nulla, il solido nulla, con la pienezza,
sentimentale o emotiva che dir si voglia, della scrittura
poetica stessa. Così nel testo appena citato, e in
molti altri testi della raccolta, avviene ciò che
avviene, per fare il più noto degli esempi, nella
Quiete leopardiana: la struttura logica e razionale
del pensiero convince di un profondo pessimismo sulla sorte
del poeta e dell'uomo in genere; ma la forza poetica e la
bellezza delle immagini imprimono nella memoria quasi solo
la luce e la gioia di una ritrovata, anche se per poco,
serenità. Il poeta sa, ad esempio, che una "farfalla"
è solo "ebbra" di un'opera "vana",
e vorrebbe anch'egli sciogliere nello stesso modo quella
che altro non è che "una corona di sogni appassiti".
Ma quanto slancio, all'inizio della poesia, in chi la segue
"all'alito dell'alba, circonfusa dal velo / impalpabile
del sole e dell'aria / sostanza lieve di colore e d'ali",
quanta sonorità squillante in quelle "a"
ribattute in crescendo, quanta sensualità tattile
e coloristica nell'appena accennata sinestesia dell'ultimo
endecasillabo. "Per chi pregano, mormorando, gli alberi
/ sulla sponda del fiume, reclini"? Forse per il "pallido
spettro delle nubi", come un canto di "orfani",
che "sale fra gli incensi", e "grida al niente
il suo niente, ripete / al deserto il deserto, l'assenza"
ma quel "vento", all'inizio di questo testo, era
venuto da lontano, aveva "il profumo del tempo",
aveva sfiorato monti e oceani, "e chi schiude / le
finestre al sorriso / del sole, nel vento / sente il ricordo,
come un polline o un canto / come una bianca danza / un
quieto gioco, il pianto / di un infante tra i riflessi dell'acqua":
di nuovo il percorso logico che sostiene la poesia è
un crescendo di negatività, per cui il pianto di
un infante, attraverso il lamento degli alberi, diventa
pianto di orfani, deserto, assenza, nella discesa "vento
- canto - pianto"; ma, di nuovo, le immagini iniziali
restano nella loro bellezza, nel "sorriso / del sole",
nella vitalità di un "ricordo" che è
un "polline", nella sonorità e nella aperta
luminosità di una ancora sinestetica "bianca
danza", nel classico alternarsi sereno di settenari
e di versi lunghi, quasi a ripetere nostalgicamente l'andamento
della più tradizionale e più alta delle forme
poetiche.
Non c'è consolazione, dunque, se non la poesia stessa,
che afferma per via estetica la forza comunque irriducibile
di una emozione che vuole esprimersi, anche nella più
buia delle prospettive, anche nella più tetra delle
solitudini. Non c'è infatti in questi testi, mai
o quasi mai, un "tu", un altro da sé in
cui ridefinirsi e montalianamente, forse, sperare: fedele
al suo disegno metapoetico, Veronesi accoglie solo un "tu
che leggi (
) tu per cui solo io vivo, soffermati /
sullo scrigno di nulla". Siamo all'interno di un gruppo
di poesie, vicino alla metà della raccolta, dedicate
più di altre esplicitamente al tema di fondo, alla
"povera voce / perduta fra i fragori / di questa età
non tua", alla "parola vuota", a "la
mia fatica" che, però, "non è stata
vana / se accesi anche solo una fiamma / nella tenebra":
ecco che il "tu" del lettore, che appare subito
dopo in questo stesso testo, pur non essendo il classico
specchio consolatorio della lirica, fino alla più
moderna, ha comunque una funzione positiva di allargamento
e di senso. Non è infatti questo il culmine delle
poesie metapoetiche, che arriva poco dopo, in versi forse
fra i più belli del libro, in ogni caso fra i più
carichi di slancio: sono quei tre infiniti imperativi della
coscienza, di cui l'ultimo devia magistralmente il campo
semantico, e prepara l'assonanza della catena "pagina
- parole - pane" del verso successivo: "Scrivere,
dire, frangere / sulla pagina le parole come pane / far
morire, nel dire, la vita / perché non muoia (
)".
C'è un antico ricordo evangelico in questa bellissima
immagine, o forse almeno sembra, io sono la via la verità
la vita, come se il pane della salvezza e della vita oltre
la vita fossero, ormai, le parole della poesia. Siamo vicini
al pieno riconoscimento del sé poetico, che mantiene
questo simbolico legame fra terra e cielo e, alla metà
esatta della raccolta, lancia il tema che dominerà
la seconda parte: "Per vincere la notte / ho distillato
dal cielo queste lacrime / di luce (
)". La bellezza
dell'immagine e il suono scivolante delle "l"
non nascondono il grave impegno: "per vincere la notte":
torna la buia "eterna assenza" su cui il libro
si era aperto, e torna, come era ovvio, l'eterna lotta fra
la fatal quiete e una poesia che nell'affrontarla la esorcizza.
Non stupisce di trovare in questa zona, più o meno
all'inizio della seconda metà della raccolta, dopo
la già ricordata poesia sul "vento", un
piccolo gruppo compatto di tre testi consecutivi, dove improvvisamente
lo sguardo si allarga, esce dal ristretto cerchio io-poesia-lettore,
e fa entrare immagini di umanità indistinta: sono
"donne dolci e tristi" che "guardano il vuoto,
oltre i vetri" di un treno, hanno forse un amore che
le attende, e un "languore che trema / nel loro sguardo",
e ricordano tanto i poveri passeggeri di quel treno che
attraversava la Terra di lavoro; o sono gli stessi
viaggiatori ma visti dalla "banchina", "presi
/ nel miele dell'istante che divide / da un addio una partenza".
È infine un "tu" che non è più
né uno specifico altro né un invocato lettore,
è l'uomo, l'umanità in generale di cui, come
chi scrisse La ginestra, chi scrive si sente partecipe,
fino a chiamarlo "fratello / al dolore" e a usare,
da lì in poi, verbi al plurale: "E non saremo
allora altro che musica (
)". La fraternità
ritrovata, leopardiana certo, ma anche di nuovo evangelica,
e infine ungarettiana, appare qui come un passo, un'ultima
soglia da varcare prima di poter esprimere, nelle ultime
liriche, quella che io definirei una serena accettazione
della morte, di quel solido innegabile nulla che comunque
ci circonda, diventato però ormai "il dolce
paese / di nebbia e di silenzio" dove forse eterno
si farà il tempo, e il corpo luce, o forse sarà
la luce a intorbidarsi: in ogni caso "queste parole"
resteranno, non importa se "marmo o pura cenere",
ma certo "ancora / scorrerà dolce il miele della
vita - / tutto sarà come non fosse stato". Una
volta di più la classica armonia dell'endecasillabo
stempera la tristezza del vuoto, come in un successivo "Portatemi
con voi, fantasmi amati", e prepara l'ultima, ritrovata
e riaffermata fiducia nell'eternità del messaggio
artistico: ancora parlano infatti "gli sposi etruschi
sul sarcofago", ancora si ode "la solare voce
/ delle ragazze (
) per le vaste navate / piena d'aria
e di cielo e luce e gioia" - dove l'unione ritmica
settenario endecasillabo raggiunge vertici di incalzante
bellezza; ancora "volano le risa, i dolci insulti /
dei ragazzi fra gli archi / acuti di re Enzio (
)".
E ancora esisterà dunque il poeta, l'io, quando sarà
"uno schiavo liberato / nel tempo senza fine (
)":
sarà, nel suo amato classico ritmo metrico da canzone
"Io pensiero e parola / in luce e canto puri, abbandonati
/ al bacio del tramonto / o dell'aurora". Non resta
ormai che ridefinire e affrontare, con rinnovato coraggio,
"il tempo di tacere", richiamato nell'ultimo testo
dalla sua posizione epigrafica, in un explicit di nuovo
in corsivo: è tempo dunque che tutto si sciolga,
si franga, dilegui, ma è tempo anche, come è
sempre stato e sempre sarà, per definire "il
mio dolore", "il mio amore", "il mio
tempo" stesso, "attesa infinita / del nulla che
è pace / e perdono". Solo la poesia può
insegnarci che un naufragio può essere dolce, anche
quello di un grido "nel buio delle sillabe": è
tempus poetandi, lo è sempre stato e lo sarà
sempre.
Andrea Matucci (novembre 2017)
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