Riceviamo e Segnaliamo:
Il passo breve delle cose
di Donatella Tognaccini
Editore Press & Archeos
Firenze, novembre 2016
Recensione
Con Il passo breve delle cose, uscito a novembre
2016 da Press & Archeos di Firenze, Donatella Tognaccini
compie un secondo e definitivo breve passo da forme di narrativa
storiografica alla narrativa d'invenzione. Insegnante di
Lettere in un liceo di Siena e membro del Centro di Studi
Storici Chiantigiani, dopo numerosi libri sulla storia,
l'arte e l'architettura del territorio natio, nello stesso
anno e per lo stesso editore l'autrice aveva già
compiuto una prima prova, nella direzione ora segnata chiaramente,
con il volumetto Se la vita è solo il nome che
porti. Sul Chianti e altri nomi straordinari, ispirato
dagli strani e buffi nomi incontrati negli archivi di antichi
documenti notarili e giudiziari.
La distanza fra la storiografia, che secondo la classica
distinzione del genere dev'essere veridittiva, e la scrittura
inventiva è dunque stata colmata. Ma il fatto notevole
che si constata ne Il passo breve delle cose, titolo
metaforico ripreso da un verso di Alda Merini, è
che la studiosa scrittrice non ha inventato una vicenda
e dei personaggi non veri e tuttavia verisimili; no, pur
parlando di comuni esseri umani ella ha prodotto una completa
invenzione, in cui la narrazione appare infedele a ogni
mimesi della realtà, è irragionevole in quanto
assolutamente improbabile. Eppure si sa, la letteratura
ha sempre qualche senso che, a ben guardare, in qualche
modo raffigura l'uomo e il mondo ed esprime qualcosa su
di essi. Perciò vediamo meglio cosa accade.
Un narratore esterno, nell'esordio rivolto al lettore, invita
e spiega: «Immaginiamo un uomo che va a visitare il
Louvre, guarda ammirato i famosi dipinti e vorrebbe averne
qualcuno per sé. È un desiderio innocente
che hanno tutti.» Così dall'inizio sappiamo
che dobbiamo "immaginare", e pertanto abbiamo
tra le mani una storia inventata, ma sappiamo altresì
che il desiderio dell'uomo da immaginare è un desiderio
che "hanno tutti", perciò l'invenzione
è verosimile. Poi, s'è già detto, entriamo
e penetriamo nell'irreale. Dunque come mai vengono stabilite
delle attese e subito sono contraddette? È un tradimento
del lettore? Anche su questo la risposta è no, anzi
l'intento è serio e il problema sta nella sua arditezza,
perché il libro, appena dopo l'esordio e fino a un
attimo prima del pensiero finale del protagonista, usa e
vuole definire l'arte, compresa la letteratura, come metonimia
dell'uomo e viceversa, cioè per meglio chiarire non
come generica metafora ma proprio una transmutatio
fra invenzione e inventore (secondo Matteo di Vandôme).
Si è capito, a questo punto, che l'ulteriore grande
interesse di Donatella Tognaccini è l'arte e l'ulteriore
competenza è la storia dell'arte. La pittura, in
particolare quattro noti dipinti esposti al Louvre, fra
i quali quello forse più famoso al mondo, la Gioconda,
è l'oggetto intorno cui ruotano la circostanza inverosimile
e una vicenda paradossale della durata di cinque giorni.
Al fianco della pittura ci sono poi diversi riferimenti
letterari, «tutti classici», conferma il testo,
e Moby Dick. Dopo i tre quarti del racconto, la fine
a sorpresa della situazione più strana sembra riportare
la storia a uno scioglimento di realistica plausibilità,
e invece, c'era da aspettarselo, dà luogo a un altro
esito strambo che è la prosecuzione, indeterminata
nel tempo della vita, dei quasi comici personaggi coinvolti.
Tutto questo per un discorso che incalza, scherza e torna
su quella prossimità fra uomo e arte di cui il racconto
vorrebbe farsi più che portavoce concettuale quasi
immagine dimostrativa.
Il discorso è colto e teso, a partire dai nomi dei
personaggi e dai dipinti scelti, in una sorta di seconda
rappresentazione di significati. Ma i nessi colti e la loro
tensione significante sono nascosti nel divertimento narrativo,
e perciò qui non ce ne occupiamo e non ci interessa
per ora una loro ricognizione, poiché non è
utile a incuriosire un lettore e anzi potrebbe togliergli
il piacere intellettuale di scoprirli personalmente. Piuttosto,
i perché delle scene, delle indicazioni più
o meno esplicite e dei nessi li apprendiamo compendiati
nella conclusione che il narratore dà senza riuscire
a dire che tipo di conclusione è: «E poi di
cosa avrebbe potuto accusarlo? Di un corto circuito spazio-temporale?
Di un enigma domestico? Di una colpa metafisica?»
Non si può dire infatti che tipo di conclusione sia,
perché l'inventore ha fatto già abbastanza
per trasmutarsi nell'invenzione, ha fatto di tutto per trasmutare
personaggi del racconto e quadri e brani di letteratura
(si noti in particolare il capitoletto X), ha fatto il possibile
per trasmutare lo stesso lettore in personaggio. Non si
può prendere che l'ultimo pensiero attribuito dal
narratore al protagonista Argus, per una considerazione
finale meta-artistica e metaletteraria: «Tutti noi,
pensava sempre e ne era convinto più di ogni altra
cosa al mondo, tutti noi non siamo che opere d'arte ancora
itineranti e un racconto non è diverso da un quadro».
Noi però chiameremo quel finale conclusione intima,
perché l'essere "ancora itineranti" riprende,
sì, dal punto di vista del narrato, il senso del
trasferimento dei dipinti e dei molti prestiti di identità
che abbiamo notato, ma soprattutto richiama alla mente e
forse anche nel cuore l'idea di un viaggio, di quel perenne
viaggio umano alla ricerca di un luogo introvabile, dove
gli spasimi possano depositarsi in uno stato di compiutezza,
come nell'opera d'arte qualunque cosa essa racconti.
Insomma questo Passo breve è una leggera,
godibile e stimolante lettura sotto diversi aspetti. Per
esempio l'agilità del romanzo breve, o più
esattamente del racconto lungo, ci è parsa la misura
giusta per gli scopi che intende raggiungere e per i modi
usati nel raggiungerli. Il tono è di una varietà
molto ben dosata: di fondo scanzonato, a tratti serio e
a tratti vagamente poetico. La scrittura è sciolta,
di lingua moderna, vivace ma sorvegliata. Vi si trovano
solo radi cedimenti sintattici dovuti alla vicinanza linguistica
con il parlato scelta dall'autrice, e almeno questi li segnaliamo
altrimenti dovremmo dire che ci troviamo davanti a un piccolo
capolavoro. Ma se proprio di capolavoro non si tratta, il
libro è comunque un piccolo gioiello di narrativa
dei giorni nostri, di quelli non facili a trovarsi.
Luigi Arista
(marzo 2017)
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